Salvatore Farina - Due amori
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"Vi ho benedetta per il bene che mi avete fatto. La vostra confidenza ha alimentato le mie illusioni. – Io posso ancora sperare d'essere amato da voi. Così vi ripeto un'altra volta: "Volete voi esser mia?" Un solo cenno e volerò ai vostri piedi.
"RAIMONDO."
Clelia rispose il giorno successivo:
"Il generale mi ha parlato di voi; stima l'indole vostra, quasi direi che vi ama. Ciò mi ha fatto piacere. Gli ho mostrato la vostra lettera, ed ha sorriso.
"CLELIA."
Raimondo non attese un minuto, e replicò:
"Che il generale mi stimi, e mi ami, e sorrida delle mie lettere, è cosa lusinghiera. Ma in nome di quanto avete di più caro al mondo, ditemi: volete voi esser mia? posso io lusingarmi d'avervi inspirato una favilla sola di questa fiamma inestinguibile?
"RAIMONDO."
A quest'ultima lettera non ebbe risposta.
Aspettò alcuni giorni-lo stesso silenzio. Venne a me col volto contristato.
–Credimi, gli dissi io; va a far visita al generale.
–A che farci? mi domandò imbroncito.
–Credimi, va a far visita al generale.
Quel giorno stesso Raimondo andò a far visita al generale.
XV
Otto giorni dopo, il mio amico era in grandi faccende. Mi chiamò a sè e mi recai nella sua abitazione. Lo trovai in mezzo ad una faraggine di mobili e di tappeti. Appena mi vide, mi venne incontro-il suo volto spirava la gioia. Raccomandò a Charruà sorvegliasse alle opere degli artefici, e mi trasse nella sua camera.
Non ebbi tempo d'interrogarlo, che egli mi pose a parte con una parola della sua felicità: sposava Clelia.
Pensate se n'era lieto. Aveva fatto addobbare di nuovi arazzi le camere; aveva cercato d'indovinare quanto poteva riuscire gradito ad una donna, e lo aveva accumulato con ogni cura nelle sue sale. Egli aveva ancora la testa piena di progetti; qua era una statuetta da collocare, colà un amorino, una tenda, uno specchio.
Guardai fisso Raimondo-l'anima gli brillava nel volto; mi pareva un altro uomo.
La gioia e il dolore ci trasformano e si contendono bizzarramente il dominio dello spirito.
Alla sera volle lo accompagnassi dalla contessa. Da qualche giorno io l'aveva trascurata; però acconsentii volentieri.
Clelia e il generale vennero anch'essi. Ogni mio studio fu di penetrare nell'animo di Raimondo e di vedere se la sua guarigione era sicura, e se non fosse a temersi una ricaduta nelle prime melanconie. Ma ogni mio dubbio cessò ben tosto.
Assolutamente la felicità ci trasforma-assolutamente la felicità è nell'Amore.
Com'ebbi così conchiuso, salutai la contessa, il generale e la signorina Clelia; strinsi la mano a Raimondo, e lusingato del buon esito della mia cura, andai a cacciarmi fra le coltri.
Io non amavo, però dormii sonni profondi; e siccome la contentezza di Raimondo si rifletteva nel mio cuore, sognai che avevo una bella, e che la mia bella mi faceva una carezza.
XVI
Di quei giorni m'ammalai. Da gran tempo mi aspettavo a questo; avea preveduto il mio male, lo avea sentito serpeggiare per le vene, e mi ci ero rassegnato. Il medico ne fece carico ai nervi, ed io penso che non s'ingannasse. Sorpreso a quando a quando da tremiti improvvisi alle gambe e sentendomi ogni dì più debole, fui costretto a tenere il letto. La mia ripugnanza per quell'inerzia forzata cui era condannato mi fece parere insopportabile quel supplizio. Siccome però la mia testa era libera, e la mia intelligenza conservava la sua lucidità, a poco a poco mi abituai.
Raimondo era venuto ogni giorno a vedermi. Un dì venne a me più lieto del solito. Tutto era pronto; fra otto giorni Clelia sarebbe stata sua. Siccome io gli presi la mano e gli sorrisi con tristezza, egli mi baciò in volto.
–Tu interverrai alle mie nozze, mi disse con accento di fiducia.
–Lo credi? domandai con quella ingenua speranza che è propria degli infermi.
–Ne ho la certezza. Mi pare perfino che tu oggi stia meglio; ti trovo meno pallido.
Non era vero che io stessi meglio, e se il mio viso non era pallido conveniva accagionarne una febbricciatola lenta che da alcuni giorni non mi abbandonava un'istante. E tuttavia io mi lasciai andare assai facilmente alle illusioni; ne aveva bisogno.
Alla vigilia del matrimonio di Raimondo volli provare a farmi forza, e balzai da letto. Non avea mosso due passi, che mi si piegarono le ginocchia e dovetti appoggiarmi per non cadere. Il pronostico di Raimondo andò fallito: io non assistetti alle sue nozze.
In quello stesso giorno venne il medico; trovò che io stava meglio, ma ad assicurare la guarigione consigliavami i bagni di mare. La stagione era propizia; confortavami ad affrettare; sperava il mutamento d'aria avrebbe contribuito a ridonarmi la salute.
Ne feci parola a Raimondo e sebbene gli dolesse che ciò mi avrebbe allontanato da lui per qualche tempo, approvò l'idea del medico. Determinai adunque che non appena mi fossi potuto reggere in piedi sarei partito per Genova.
Tre giorni dopo potei fare alcuni giri attorno alla mia camera senza l'aiuto del bastone; non aspettai altro-il domani sarei partito.
Charruà venne, com'era uso, a chieder mie notizie.
Feci conoscere per mezzo suo a Raimondo la mìa risoluzione, e come fossi dolente di non poter salutare prima della mia partenza la sua sposa; avrei aspettato lui, e mi sarei servito del suo braccio.
Il mattino successivo assai di buon'ora Raimondo e Charruà erano nelle mie camere. Simplicio, il portinaio, era salito prima ancora da me e m'avea preparato le valigie ed aiutato a vestire; così che in un istante io fui spiccio, e col sostegno del mio amico e di Charruà scesi le scale.
Una carrozza era ferma; feci per salire, e una mano candidissima uscì dallo sportello per aiutarmi; guardai dentro con occhio di meraviglia-era Clelia.
Non dirò la mia sorpresa, nè se più grande fosse in me la riconoscenza o il piacere.
Mi fece sedere al suo fianco, mi domandò della mia malattia, e dissemi con accento di sincerità che se n'era afflitta anch'essa-così dicendo guardava con tenerezza il suo Raimondo.
Compresi come essi fossero felici, e quanto intensamente si amassero. E per una antitesi naturale mi portai col pensiero a quei giorni di tetra mestizia che tanto aveano impoverito l'anima di Raimondo. Quale diversità nell'espressione dei suoi sguardi, e quale nuova e soave armonia nelle linee tranquille del suo volto! Dove era il segreto della sua pace, dov'era il culto che gli mancava, il tempio in cui rinverdisse la sua fede inaridita? Egli l'aveva cercato da per tutto, fuorchè nella sua casa. Ed ecco l'angiolo della sua casa gli aveva sorriso, e gli aveva dato un cuore vergine e un affetto sereno invece delle lusinghiere e fallaci passioni della colpa.
Poc'anzi la solitudine colle sue paure, colle sue ire, coi suoi dubbii perenni; oggi un viso amoroso che si specchia nelle sue pupille, un corpo snello e pieghevole che si serra al suo petto, un cuore che battè col suo-due sguardi, due sorrisi, due anime che si confondono.
Non più quell'eterno smaniare, quel portare dappertutto la noja, quel domandare ad ogni cosa l'amore e riceverne il cinismo. Il mondo gli apriva le sue sale dorate, quelle sale ripiene di mille incantesimi, di mille follie, quelle sale dove s'incontrano uomini che, stringendo la mano e bisbigliando all'orecchio di ognuno la maldicenza, offrono a tutti una larva d'amicizia; e donne dagli sguardi infuocati, dai sorrisi affascinanti che barattano con essi una larva che chiamano amore-egli ne ha ritirato il piede. Poteva carpire cento baci di fuoco che ardono e distruggono, e s'appagò di quell'uno che purifica. La virtù, la pace, la felicità erano nella scelta-ecco il segreto che ha trasformato Raimondo.
Per via io guardava Clelia con un sentimento di mestizia indefinibile. Era pallida e bella, di quella bellezza buona che è l'ideale dell'artista.
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