Salvatore Farina - Due amori

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Chi si è sentita in petto una inspirazione, ed ha vagheggiato lungamente un tipo, ed ha creduto rinvenirne le forme nelle perfezioni della materia, colui non strapperà giammai all'arte il suo segreto. La natura lo ha creato copista e farà bene a non guardare più in là. Il mondo delle cose ha le sue rivelazioni, ma sono limitate, imperfette nella loro immensità. Un frammento di colonna che toccasse le nubi non sarebbe tuttavia una colonna.

Il mondo delle idee si perde nel cielo; l'arte, che è figlia del cielo, sarebbe cosa morta senza l'idea che le soffiasse dentro il fuoco divino.

La bellezza è la perfezione della materia-la bontà è la perfeziono dello spirito-bellezza e bontà unite sono la perfezione dell'arte.

Io guardava Clelia con espressione di mestizia-giovine, bella, amata; che mancava alla sua felicità? Non sapevo dirlo a me stesso; vedeva la sua letizia, la dolce serenità dei suoi occhi, udiva il suo gajo cicaleccio, e tuttavia parevami che io dovessi compiangerla, e venianmi dal cuore non so quali indistinte parole di conforto.

Mi par oggi, e son passati tanti anni, che io le diedi quell'addio, e che, stringendomi la mano, essa mi rispose: a rivederci. E si fermò sulla parola, dicendomi come sperasse che ciò sarebbe stato assai presto.

"Dipende da voi" aggiunse-e fu l'ultima sua parola.

"Dal cielo" pensai.

In quella fu dato il segnale della partenza. Mi gettai nelle braccia di Raimondo, salutai ancora una volta delia, e partii.

XVII

Una sera io me n'andava errando lungo la spiaggia. Da qualche tempo i miei nervi mi permettevano le lunghe passeggiate; direi anzi che le esigevano. Avea volto le spalle ai rumori della città e muoveva lento verso San Pier d'Arena. La brezza marina increspava leggiermente le onde che a volta a volta si spingevano a lambire i mìei passi distratti; io era mesto d'una mestizia dolce che assomiglia a contemplazione, e che non ha nulla del dolore.

Quando mi sentii stanco, m'inerpicai sopra uno scoglio e m'assisi.

Ricordai allora ciò che il signor S. aveami detto la sera innanzi dell'isola di Sardegna, e il suo invito di recarmivi con lui per alcuni giorni. Ma poichè tutta quella notte io m'ero travagliato con codesto martello, e n'ero uscito saldo come prima nel mio proposito di non ritornare mai più alla mia patria, volli respingere questo pensiero e sorriderne. E così feci; e per meglio riuscire, volli divagare il mio pensiero, e girai gli occhi all'intorno per trovare qualche cosa che mi suggerisse nuove idee.

La spiaggia era deserta, sabbiosa e seminata di conchiglie, quelle stesse conchiglie che fanciulletto io raccoglieva nei lidi solitarii deila mia patria. Il mare frangeva il suo lamento sovra gli scogli con ritmo severo, come l'aveva udito per tanti anni. Così io mi vidi riportato alla mia infanzia-la mia infanzia era la mia patria. E allora mi parve che io fossi un ingrato; e pensai che quella terra ch'io fuggiva m'avea pure data la luce, e m'avea nutrito coi frutti delle sue selve feconde. Né a me che avea respirato le sue aure profumate d'aranci si conveniva di rinfacciarle le sue miserie, fruito più di sventura che di colpa.

Però da quel punto seguii senza resistervi il corso dei miei pensieri.

Mi ritornò alla mente il volto sereno di mia madre, e i suoi grand'occhi neri-e i fili d'argento che incorniciavano la fronte rugosa della povera nonna, la vecchia amica della primissima mia vita. Ripensai i tripudii sognati sulle sue ginocchia, e le cento storielle delle bigie notti d'inverno, e i fantasmi del focolare. Salii le note scale, mi aggirai per le note stanze del tetto che mi avea visto nascere, e rividi i volti noti che m'aveano prodigato i loro sorrisi. Udii lo scampanare che mi destava ridente nel mio letticciuolo e le grida assordanti, e lo sparo dei mortaretti che festeggiavano la buona santa del villaggio; e vidi riversarsi per le vie sassose una folla variopinta, vestita a cento fogge, sorridente e gaja come una mattinata d'aprile.

–Così dunque io non rivedrò più quei luoghi che serbano tanta parte di me medesimo; io non vedrò più le figure abbronzate dei miei compaesani, non percorrerò più quelle vie, non udrò quelle canzoni e la nenia di quelle cetre notturne. E non sarebbe certamente un gran disagio l'andarvi. Quindici giorni; che sono essi quindici giorni per un artista che non ha altra legge che il suo capriccio?

–Vediamo-non è che fantasticare, ci s'intende, io ho giurato di non andarvi e non ci andrò. L'ho giurato! A chi? Perchè l'ho giurato? e qual danno se io mancassi al mio giuramento? Non è che io voglia patteggiare colla mia coscienza; ma in fede mia se io non ci andrò, non è certamente il mio giuramento che deve arrestarmi. Io partirei domani col signor S. – quel signor S. è una buona persona, che mi ha dell'affetto; per viaggio non sarei solo. Arriverei fra tre giorni, rivedrei qualche amico, e lo troverei mutato, rovisterei dapertutto ove io sapessi celata qualche corda che potesse risvegliare un'armonia sopita nel mio cuore; visiterei come in mesto pelegrinaggio la mia vecchia casa una volta popolata da tante fantasie-e i tugurii dei poverelli che erano un tempo gli amici della nonna-e vedrei forse aprirsi quelle porte tarlate alla notizia del mio arrivo, e venirmi incontro qualche vecchierella che si ricorderebbe di avermi portato in braccio, per baciarmi sulla bocca. Poi m'inoltrerei per un mesto viale, e salutate le mura di un solitario ricinto, andrei silenzioso a ricercare la tomba de' miei cari per appoggiare sovr'essa la testa e deporvi una ghirlanda… però che io non dormirò l'ultimo sonno accanto a te, povera madre mia.

A poco a poco era scesa la notte; il mare fremeva languidamente alla guisa d'un cuore innamorato che si stringe al petto della sua donna-la notte è la negra amica del mare.

Mi ritrassi dalla spiaggia e ritornai sui miei passi.

–Oibò, conclusi dopo alcune ore dacchè andavo voltandomi e rivoltandomi sui fianchi nel mio letto; oibò! io sto saldo come una piramide; non ci andrò. E giuro che se questa dannazione mi dura ancora, io farò le mie valigie all'alba, e fuggirò questa città senza voltarmi indietro.

–Io fuggirò questa città senza voltarmi indietro, ripetei un'ora dopo.

–Per via di mare, bisbigliavami il mio demonio.

–No, in fede mia, viaggerò per terra. E partirò senza neppur vederlo questo signor S. a cui devo tanto supplizio.

–Ma egli se l'avrà a male.

–Tanto peggio per lui.

–E partirà senza i tuoi augurii-e pensa se il mare gonfiasse le sue tempeste.

–Buon per me che avrò evitato il pericolo.

XVIII

Il domani all'alba io faceva le mie valigie. Non avevo ancora deciso ove sarei andato; ma era fermo nel proposito di lasciare Genova.

Voleva far ritorno a Milano, voleva proseguire per alcun tempo ancora la mia cura in qualche paesuccio dei dintorni. Mentre io contendeva fra questi due partiti, il cameriere venne a dirmi che il signor S. del Nº 35 era sulle mosse per la partenza, e che domandava il permesso di venirmi a salutare.

–Il signor S., da capo col signor S.; pensai, assolutamente non ci è scampo; avrei dovuto immaginarlo. E dove vanno essi i passeggieri della vostra locanda? domandai asciutto.

Il cameriere mi guardò in faccia stupefatto.

–Convien distinguere, rispose; v'ha chi viene per via di mare e parte per via di terra, e chi invece giunto per terra s'imbarca…

–Non parlatemi d'imbarchi-voglio viaggiare per terra.

–Quand'è così, le vie sono molte…

–Ed è appunto per questo che io non so scegliere…

–Non comprendo.

–Me ne accorgo. State attento. Questo è il numero 80, non è vero? Il numero 81 è occupato?

–Da un inglese.

–Viaggia?

–È arrivato jeri.

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