Salvatore Farina - Due amori
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La signorina Clelia era una personcina dilicata, piuttosto pallida, con due occhioni neri e con lunghe treccie di capelli castani che lasciava scendere sulle spalle. Nell'insieme una creatura come se ne vedono tante; non affatto bella, e tuttavia ricca di doti fisiche; e se le falliva quella consapevolezza dei proprii meriti che è sì presso alla civetteria e che molti ricercano nella donna, spirava in compenso dai suoi occhi una candida espressione di ingenuità, e dall'abbandono delle sue membra e dalle sue movenze, una certa mollezza che non è difetto, e una tal quale indolenza piacevole. Clelia era una creatura buona. Parlava senza affettazione, senza guardarsi all'intorno per farsi ascoltare; sorrideva spesso; a quell'età il sorriso viene dal cuore; e se taluno le dirigeva la parola, sapeva starsene in ascolto-tutto ciò non è tanto comune come può parere. La sua parola era facile e chiara; diceva tutto il bene che sapeva-quando si mormorava di qualcheduno, taceva; se lo poteva senz'offendere, mutava discorso-palesava i suoi gusti senza tenersene-era presto fatto a dirli, i suoi gusti, ed infinito ad enumerarli: amava tutto. Tale mi parve dopo alcuni giorni ch'io l'ebbi in pratica la signorina Clelia.
Se non che io non seppi alla prima indovinare la sua condizione. Il vecchio generale la chiamava talvolta: "figliuola mia;" ma il più spesso: "signorina;" però se io poteva argomentarne del suo affetto paterno, era ben altra cosa della sua qualità dì padre.
Ma in una radunanza d' amici di casa l'è assolutamente impossibile di tener per gran tempo la tua curiosità, senza che trovi cento disposti a pagartene. I ciarlieri e i curiosi sono le razze più numerose che pullulino sulla terra. E che Domine Iddio ti scampi dagli uni e dagli altri, però che per maggior malanno essi si vivono in ottima armonia, e i ciarlieri vendono per uso e consumo dei curiosi-e la sete di questi è per lo meno pari alla feconda produttività di quelli. Ma siccome avviene che il curioso sia alla sua volta ciarliero, anzi per ciò solo sia avido di sapere, in quanto trovi mezzo di dire, a conti fatti avviene che è sempre l'uditorio che si trova a mancare. Però i galantuomini che se ne vivono al di fuori, si vedono involontariamente trascinati al mercato dove si vende a gran ribasso .
Press'a poco in questo modo avvenne che io sapessi qualche notizia sul conto della signorina Clelia. Era orfana, o almeno passava per tale; in questo convenivano tutti; ma secondo gli uni il Generale era un tutore, secondo altri un padre che nascondeva una colpa-se taluno avesse osato, non si sarebbe arrestato dinnanzi alla sua canizie e avrebbe detto peggio.
Una sera io mi era recato secondo l'usato presso la contessa B., notai che Raimondo, che da qualche tempo s'era fatto frequentatore assiduo, non era venuto. La contessa me ne domandò notizie; risposi non averne; infatti in quel mattino egli non era stato da me. Il discorso si portò naturalmente sovra di lui; la signorina Clelia era seduta d'accanto e ci ascoltava. In quella entrò Raimondo. Fosse caso o istinto, i miei occhi s'incontrarono con quelli di Clelia; ciò bastò a farlo arrossire.
–Si parlava di voi, disse la contessa, ne dicevamo molto male, perchè temevamo che non veniste.
Raimondo si scusò con garbo; da qualche tempo avea fatto cammino nella galanteria.
Poco stante la conversazione nostra languì; Clelia non diceva motto-Raimondo s'era fatto tetro. Mi aspettava che secondo il suo costume di allontanarsi quand'era sorpreso da cotali malinconie, togliesse commiato. Ma con mia sorpresa egli stette. La contessa, che aveva in qualche pratica il cuore di lui, procurava distrarlo, ma inutilmente.
Un'ora dopo la signorina Clelia salutò la contessa, e uscì.
Raimondo non s'era quasi mosso; ma non andò guari che anch'egli lasciò l'adunanza. Io gli tenni dietro e lo raggiunsi.
VII
Parve lieto che io l'avessi seguito; ma non mi palesò la cagione della sua mestizia. Credendo ch'egli volesse andarne a casa, lo accompagnai.
Durante la via non mi disse parola. Come fummo arrivati alla sua abitazione, feci atto di arrestarmi; ma egli passò oltre. Assolutamente Raimondo era distratto.
Attraversammo molte vie, sempre collo stesso silenzio-così di passo in passo uscimmo alla campagna.
Il cielo era sereno; le stelle fitte e lucenti; qualche rara nuvoletta bianca viaggiava in quell'immenso aere notturno.
Le tenebre avevano animato le voci strane dei loro cantori; i grilli nelle praterie, le rane nella vicina palude, e a quando a quando la civetta e il gufo nell'estrema punta della quercia levavano al cielo il loro inno melanconico. Intendendo l'orecchio si udiva da lungi come un vago mormorio di mille note diverse; il silenzio ha la sua voce, una voce confusa che non si sa d'onde parta, ma che arriva sempre al cuore.
Ci arrestammo estatici.
Poco dopo Raimondo mi afferrò le mani, levò gli occhi al cielo, e mi disse con un accento singolare di selvaggia esultanza:
–Amico mio, amico mio, non ti pare che la natura susurri il suo arcano linguaggio per noi soli? Io mi sento leggiero-vorrei salire in alto… in alto, inseguire quella nuvola. Mi si dilata il cuore-ho un gran cuore-vorrei stringere tra le braccia l'universo, e dirgli che l'amo.
–Mi par proprio di volare, aggiunse con crescente entusiasmo, mi par proprio di credere. La mia fede è fatta di voli.
In quella soave contemplazione passò alcun tempo.
Suonava mezzanotte, e noi non ci eravamo ancora mossi.
Vedendo come quel rintocco non lo scuotesse, io fermai in mente che Raimondo era distratto.
VIII
Il domani alcune occupazioni mi tennero lontano da casa. Quando vi ritornai seppi che Raimondo non era stato a far ricerca di me.
Se non che non era ancora l'alba del giorno successivo, che io udii picchiare all'uscio della mia camera; era lui. Mi proponeva una passeggiata all'aria aperta-accettai.
Per via parve pensieroso; ad ora ad ora m'interrogava sulle mie abitudini, ed io gli venia ripetendo cento cose che egli conosceva meglio di me.
–Come hai vissuto jeri? mi domandò all'improvviso.
–Occupatissimo. Sarei venuto da te, ma non ebbi tempo.
–E la notte?
–Un sonno solo.
Non ebbi dette queste parole, che egli ammutolì e si oscurò nel viso-nè per quanto io vi almanaccassi sopra, seppi comprenderne la cagione.
IX
Alla sera io mi recai in casa della contessa; mi aspettava d'incontrarvi Raimondo, ma non vi era ancora.
Il generale mi venne incontro; gli domandai notizie della signorina Clelia. Era incomodata lievemente e s'era rimasta a casa.
Raimondo non comparve-quando l'ebbi aspettato tre ore inutilmente, mi allontanai.
Per otto giorni fu la stessa cosa. Sempre che mi recai nelle sale della contessa non vi vidi mai Raimondo-e il generale continuava a dirmi che la signorina Clelia era incomodata.
Io era stato più volte in casa del mio amico; ma Charruà m'avea sempre detto che non era in casa. Vi andai ancora una volta-la stessa risposta.
Raccomandai a Charruà dicesse al suo signore: Che l'amico avea bussato sette volte all'uscio dell'amico, e che l'uscio non s'era aperto.
Charruà accennò del capo; uscii con animo di non più ritornare.
Tre ore dopo Charruà veniva a me e recavami una lettera di Raimondo.
Ne ruppi il sigillo e la lessi con avidità. Quella lettera era così concepita:
"Tu hai ragione di lamentarti di me; tu hai ragione di dire ch'io sono un ingrato; ma benchè sappia d'essere colpevole molto, e d'aver tradito i doveri dell'amicizia, lascio sperare al mio cuore che la franchezza con cui mi faccio accusatore di me medesimo, renderà te giudice più benigno.
"Ti devo una confessione, una confessione che non farei a mia madre s'ella vivesse ancora, che il mio pensiero non vorrebbe fare alla mia anima, se per poco io potessi separarne le facoltà, e fare che il mio solo volere ripartisse a seconda dei suoi capricci la scienza.
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