Giuseppe Giacosa - Novelle e paesi valdostani

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Giuseppe Giacosa

Novelle e paesi valdostani

LA CONCORRENZA

Quando Giacomo, gettato sulla pedana il sacco dell'avena ed impugnate le redini alzava il piede per salire a cassetta, le quattro brenne braveggiavano e s'inalberavano come cavalli di razza. La diligenza strappata bruscamente, usciva dal portone con una voltata maestra ad angolo retto e irrompeva di trotto sonagliando giù per la viuzza, mentre egli, un piede sul montatoio ed uno in aria, lanciava voltandosi indietro con spavalda noncuranza, un ultimo lazzo allo stalliere. Poi si arrampicava a cassetta e durava un gran pezzo, dando le spalle ai cavalli, le redini fra le ginocchia, a frugacchiare fra le gambe dei viaggiatori per allogarvi allo scuro il sacco dell'avena e mille involti e pacchi e pacchetti, nulla curando le impazienze di quelli che svegliati a mezzo la notte, borbottavano e si dimenavano nella tenebra calda dell'imperiale.

Aveva la più cattiva tappa dello stradale, tutta sali e scendi, e gomiti e cune di rigagnoli, scarnata come un greto, chiusa qua e là fra il monte e il fiume, un accidente di strada, ghiacciata tutto quanto l'inverno, e l'estate in certi punti inondata alto un braccio al primo temporale che gonfiasse la Dora. Faceva due corse nelle ventiquattr'ore, una in salita la notte, l'altra in discesa il giorno. Prima di lui, ogni due mesi, per quel tratto di strada era un cavallo coronato, e spezzata o la sala o qualche razzo delle ruote; dacchè egli aveva preso le redini, in tre anni non s'era rotta una tirella. Per strada lo conoscevano tutti. Carrettieri, contadini, preti, osti, bottegai, carabinieri, mendicanti, suonatori d'organetti, cantonieri, merciaiuoli ambulanti, lucchesi, rivenditrici di fettuccie, tutti lo chiamavano per nome, e davano al suo nome pronunziato in francese, una certa troncatura vibrata che rendeva a pennello la sua indole irrequieta e risoluta. Egli aveva per vezzo di fare eco al proprio nome con una sillaba consonante, e a chi lo chiamava Giac, rispondeva invariabilmente un Crac secco come una frustata.

Il suo vezzo era passato negli altri e l'accoppiamento di quelle due voci era diventato nella valle quasi un segno di riconoscimento che affermava il diritto di cittadinanza e stabiliva fra lui e ogni altro un patto tacito di amicizia e di mutui servigi. Era servizievole, di buona memoria, e gioviale sempre. La persona snella e l'aspetto piacevole gli permettevano di essere famigliare con grazia, anche colla gente da più di lui. Possedeva la grazia amatoria, faceva sorridere le ragazze e le donne e le abbracciava di sorpresa senza farsi scorgere; traversando i villaggi, a quante stavano alla finestra rivolgeva una certa mossa rapida della testa, che gli gettava il cappello indietro sulla nuca, mentre le labbra accennavano ad un bacio così improvviso e frettoloso, che appena dava loro il tempo di vederlo, non di adombrarsene. Scherzava a tono con ogni condizione di persone e dava ad ognuno la notizia che lo poteva interessare. Come faceva, stando sempre per strada, a conoscere tutte le conoscenze de' suoi conoscenti? Fatto sta che le conosceva e le chiamava per nome tanto che Lasquaz, l'usciere, soleva dire di lui: È un censimento.

L'inverno, quando la diligenza era vuota, egli sapeva con arte sopraffina adescare i pedoni a salirvi. Prima di raggiungerli allentava la corsa, li accostava di passo, poi li richiedeva di qualche minuto servizio: districare le redini impigliate in un gancio, accorciare una tirella, assestare il primaccino e intanto intavolava discorsi da tirarsi per le lunghe, lasciando indovinare che al fondo ci sarebbe stato il lecco di qualche notizia, di qualche storiella saporita, finchè usciva in un: salite via, che poteva parere la paga del servigio ricevuto; e quando l'amico cascatoci prendeva posto, gli susurrava all'orecchio: ve la faccio a metà prezzo, ma che il padrone non lo sappia.

Il padrone lo sapeva e toccava i quattrini. Quel tratto di strada fruttava ora, un buon terzo di più che non solesse per il passato.

La notte, l'inverno, tutto il tempo della corsa zufolava quattro o cinque note di una sola canzone; l'estate, discorreva coi cavalli, con quelli di punta specialmente. Quelli del timone, diceva, non hanno tempo di starmi a sentire. A questi le carezze, a quelli le frustate chioccanti.

Metteva di volata una cavalla bianca chiamata Forca, e un cavallone rosso, chiamato Rancio.

– Rancio, cosa guardi? È una pisciata di mulo che fa la schiuma. Sì. Drizza le orecchie, ciac ciac [due frustate] ebbene? sà di buono? Su la testa Forca, Forca, Forchetta, Forchina e Forcona, bella bianca, ti piace la stalla, eh? – bada che t'inzuppi, leva i ferri o ti levo il pelo, – avanti Rancio, vergogna! È una pietra grigia che splende alla luna, c'era anche ieri. – Te le vuoi pigliare Forca, dimmelo che le vuoi, è vero? è vero? Sono qui, sono qui, eccolo in aria il castiga rozze, il castiga brenne, il castiga some, ciac, ciac, lo senti? – Oh, oh, oh! no, con me! non si fanno i capannoni con Giac! Giac è buono! – Volete spuntare canaglie, devono tirar tutto questi due vecchioni qui sotto? Ci sono dei signori sapete, non è mica la baracca dell'inverno piena di pechini e di pidocchi. – Brava Forca! Lo sapevo, ora si mette al galoppo, ciac, ciac, ciac, anime belle, vi insegno il mestiere.

Certe volte il mestiere lo insegnava ai viaggiatori che gli sedevano vicino, e allora erano sperticati elogi delle sue bestie, quattro agnelli, ciac, ciac, che non occorre toccarli mai.

Coi signori, tutta gente scribacchina, chiamava penna la frusta e calamaio l'astuccio di cuoio dove riporla in riposo, e via discorrendo.

***

Il padrone di Giac, oste del Cannon d'Oro , teneva la posta da quindici anni, e vi s'era arricchito ed impinguato. – Era un grosso omaccione dal lardo cadente, pallido per vizio cardiaco e lento come un pachiderma. Un monferrino, capitato venticinque anni addietro in Val d'Aosta conducente di vino, stabilitovisi beccaio, assodatovisi tavernaio e salito poscia alla dignità di albergatore e mastro di Posta. In sua vita, aveva fatto due cose buone: molti quattrini ed una bella ed abbondante figliuola; quelli per sè, questa [essa almeno sperava] per altri.

Ora, vecchio, non faceva più nulla; all'albergo pensava la figliuola, la quale, nata quando già il padre prosperava, era chiamata mademoiselle dai forestieri, e soura Gin [signora Giovannina] da quelli di casa; mentre al padrone, venuto su dal nulla, il nome di Pèro [Pietro] non s'era mai potuto nobilitare con un sour , ed era somma grazia se negli ultimi anni, più la pancia che la dignità, lo avevano fatto chiamare Barba Gris [zio grigio].

Soura Gin era dotata di una grassezza soda e fresca; bionda, bianca, piccolo naso, piccoli occhi vivissimi, bocca larga, labbra carnose e ridenti, dentatura stupenda. Badava a tutto, compresi i cavalli, era sempre dappertutto, ma più in scuderia, quando sapeva di trovarci Giac. Una volta che a Giac era toccato un potentissimo calcio da una mula, essa gli aveva fasciato la gamba ferita e lo aveva tenuto all'albergo come un signore per oltre una settimana. Un'altra volta, venuti alle mani Giac e lo stalliere, questi ebbe da soura Gin otto giorni di paga ed il congedo immediato. Barba Gris attribuiva quelle cortesie a saggezza amministrativa: Giac essendo una perla di cocchiere, era naturale che la figliuola lo tenesse da conto: ma Giac, sapeva valutarle altrimenti, benchè non adoperasse per procacciarsele; giovialone con tutte le donne, a tu per tu diventava un sultano freddo e non curante e faceva grazia a lasciarsi adorare.

Un giorno il caffettiere e tabaccaio del luogo, venne dall'oste a confidargli come qualmente una sua nipote ed erede, si fosse innamorata di Giac, e lo volesse ad ogni costo per marito.

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