Pietro Giannone - Istoria civile del Regno di Napoli, v. 4
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La decimasesta, ch'è l'ultima di questo Principe, collocata da Pietro delle Vigne nel libro primo delle Costituzioni del Regno sotto il titolo de Officio Castellanorum , non contiene altro, se non che si comanda a' Castellani ed altri loro subalterni, che niente esigano da' carcerati, che non pernotteranno nelle carceri; ma se arriveranno a pernottarvi, nel tempo della lor liberazione non esigano più che un mezzo tarino.
Nel libro secondo non abbiamo leggi del Re Guglielmo, ma nel terzo la decimasettima, che prima si incontra, è quella sotto il titolo de Dotariis constituendis , ove s'impone alle mogli, dopo la morte dei loro mariti, di dovere assicurare gli eredi di quello del dotario, che tengono nella Baronia, e prestar giuramento di fedeltà a colui, che sarà rimasto padrone della medesima.
La decimaottava, che abbiamo sotto il titolo de Fratribus obligantibus partem feudi pro dotibus sororum , permette a' fratelli, se non avranno mobili, o altri beni ereditarj, di poter costituire in dote alle loro sorelle, e obbligare perciò parte del Feudo; e di vantaggio, se avranno tre o più Feudi, che possano uno d'essi darne in dote alle medesime: ma che in tutti i casi suddetti, e quando s'obbliga il Feudo, e quando s'aliena, o si costituisce in dote, sempre s'abbia da ricercare la licenza del Re. E di vantaggio, che i matrimoni non possan contraersi senza suo permesso ed assenso, ed altrimenti facendosi, tutte le convenzioni siano nulle, e invalide: ciocchè, come si disse, diede motivo a' Baroni del Regno di doglianza, che per queste leggi, per le quali senza licenza della sua Corte non potevano collocar in matrimonio le lor figliuole o sorelle si era loro imposto duro giogo; ma Federico, ciò non ostante, volle confermarla per quelle ragioni, che si sono dette, quando delle leggi di Ruggiero parlossi; poichè la legge non era gravosa per quello, che ordinava, ma per lo mal uso, che d'essa Guglielmo faceva, il quale per avidità, che i Feudi ritornassero al Fisco, era inflessibile a dar il suo permesso nei matrimoni, onde si mossero quelle querele de' Baroni e quei disordini, che nel Regno di questo Principe si sono raccontati.
Merita la decimanona legge di Guglielmo, posta sotto il titolo de Adjutoriis exigendis ab hominibus , tutta la considerazione; poichè in essa più cose degne da notarsi s'incontrano. Primieramente si raffrena l'avidità de' Prelati delle Chiese, de' Conti, de' Baroni, e degli altri Feudatari, i quali per qualunque occasione estorqueano da' lori vassalli esorbitanti adjutorj ; onde volendo togliergli da questa oppressione, stabilisce i casi ne' quali possano i medesimi giustamente pretendergli. I casi sono: I Se si trattasse di redimere la persona de' loro padroni dalle mani de' nemici, da' quali fossero stati presi militando sotto le insegne del Re. II Se il Barone dovesse ascrivere un suo figliuolo alla milizia. III Per collocare la sua figliuola, o sorella in matrimonio. IV Per compra di qualche luogo, che servisse per servizio del Re, o del suo esercito. Merita ancora riflessione ciò, che si stabilisce per li Prelati delle Chiese, a' quali anche si prescrivono alcuni casi, ne' quali possano legittimamente cercar gli adjutorj da' loro vassalli: I Per la loro consecrazione. II Quando dal Papa saranno chiamati ad intervenire in qualche Concilio. III Per servizio dell'esercito del Re, se essi saranno in quello. IV Se saranno chiamati dal Re; ove è da notare, che in questi tempi non cadea dubbio alcuno, se i Principi potessero chiamare i Prelati, nè questi facevano difficoltà d'ubbidire alle chiamate, come si cominciò a pretendere negli ultimi tempi; se bene nel Regno i nostri Principi sempre si siano mantenuti in questo possesso, con discacciar i renitenti dal Regno nel caso non ubbidissero. V Se il Re per suo servigio gli mandava altrove, siccome indifferentemente soleva fare, impiegandogli sovente negli affari della Corona; e per ultimo se l'occasione portasse, che il Re dovesse ospiziare nelle loro terre. In tutti questi casi si permette a' Prelati poter riscuotere da' loro vassalli gli adjutorj, ma si soggiunge nella medesima Costituzione, che debbano farlo moderatamente.
Quell'altra, che si legge sotto il titolo de novis edificiis , se bene in alcune edizioni portasse in fronte il nome di Ruggiero, ed in altre quello di Guglielmo, è chiaro però, che non sia nè dell'uno, nè dell'altro. L'Autore della medesima fu Federico II come è manifesto da quelle parole, ab obitu divae memoriae Regis Gulielmi consobrini nostri , intendendo Federico di Guglielmo II, che fu suo fratello consobrino, come nato da Guglielmo I, fratello di Costanza madre di Federico.
La vigesima è sotto il titolo de servis, et ancillis fugitivis . Proibisce per quella Guglielmo, ritenere i servi fuggitivi; ed ordina nel caso sian presi, che immantenente si restituischino a' padroni, se si sapranno: se saranno ignoti, impone che debbano consegnarsi a' Baglivi, i quali tosto dovranno trasmettergli alla sua Gran Corte e facendo altrimenti, s'impone pena ai trasgressori, anche agli stessi Baglivi, della perdita di tutte le loro sostanze da applicarsi al Fisco: ma Federico nella Costituzione de Mancipiis , dà un anno di tempo a' padroni di ricuperargli, da poi alla Gran Corte saranno trasmessi.
L'ultima è quella che si legge sotto il titolo de pecunia inventa in rebus alienis . Se l'altre leggi di Guglielmo sinora annoverate mostrano l'avidità, che ebbe questo Principe di cumular denari, e d'imporre tante pene pecuniarie, onde s'arricchisse il suo erario, maggiormente lo rende manifesto questa, che siamo ora a notare. Guglielmo sin dall'anno 1161 avea stabilita legge, che chi trovasse un tesoro, lo trovava per lo Re [53] . Bardi tom. 3. Cron. fol. 333.
. In questa, ora ordina che chiunque ritrovasse oro, argento, pietre preziose ed altre simili cose, che non siano sue, debba immantenente portarle a' Giustizieri, o Baglivi del luogo, ove saranno trovate, i quali tosto debbano trasmetterle alla sua Gran Corte, altrimente come ladro sarà punito. Dichiarando ancora generalmente, che tutto ciò che nel suo Regno sarà trovato, del quale non apparisca il padrone, al suo Fisco spezialmente s'appartenga. Vuol che alla sua pietà si debba ciò che soggiunge, cioè che se fra lo spazio d'un anno taluno proverà esserne di quelle il vero padrone, debbansi a lui restituire, ma quello trascorso, stabilmente al Fisco s'ascrivano. Federico II, nella seguente Costituzione approva la legge, e questo solo aggiunge, che le robe trovate s'abbiano a conservare da' Giustizieri e Baglivi delle regioni, ove si trovarono, non già trasportarsi nella Gran Corte, non parendogli giusto, che i padroni di quelle per giustificare e provare esser loro, e per ricuperarle, da lontani luoghi abbiano con molto loro dispendio e travaglio da ricorrere alla Gran Corte da essi remota.
Queste sono le leggi del Re Guglielmo I, che a Federico piacque ritenere, e che volle unire colle sue e con quelle di Ruggiero suo Avo; poichè l'altra, che si legge sotto il titolo de adulteriis coercendis , dove, quando non vi sia violenza, si commette a' Giudici ecclesiastici la cognizione dell'adulterio, a cui uniformossi l'Imperadrice Costanza per una sua carta rapportata dall'Ughello, non è, nè di Ruggiero, nè di questo Guglielmo: ella è di Guglielmo II, suo figliuolo, come si vedrà chiaro quando delle leggi di questo Principe farem parola.
Fassi ancora da alcuni Guglielmo autore della Gran Corte, e ch'egli fosse stato il primo a stabilir questo Tribunale; nè può dubitarsi, che nell'anno 1162 uno de' Giudici di questa Gran Corte fosse stato Carlo di Tocco Commentatore delle nostre leggi longobarde. Ma siccome ciò è vero, così non potrà negarsi, che la Gran Corte a' tempi di Guglielmo era quella eretta in Palermo, ove tenea collocata la sua sede regia, non già quella, che a' tempi di Federico II, e più di Carlo I d'Angiò, veggiamo stabilita in Napoli. In tempo di Guglielmo, Napoli non era riputata più di qualunque altra città del nostro Reame, anzi Salerno, e (prima d'averla egli così mal menata) Bari sopra le altre estolsero il capo. E se bene alcuni rapportano, che questo Principe di due famosi castelli avesse munita Napoli, cioè di quello di Capuana contro gli aggressori di terra e dell'altro dell'Uovo, per que' di mare, ancorchè altri ne facessero pure autore Federico: niun però potrà negare, che questa città da Federico II, cominciasse pian piano a farsi capo e metropoli di tutte l'altre, così per l'Università degli studi, che v'introdusse, come per li Tribunali della Gran Corte e della Zecca, chiamato poi della Camera Summaria; e che non prima de' tempi di Carlo I di Angiò fosse sede regia, ove si riportavano tutti gli affari del Regno, e che finalmente la resero capo e metropoli di tutte le altre, come si vedrà chiaro nel corso di quest'Istoria. Ne' tempi di quest'ultimi Re normanni, non vi era in queste nostre province città, che potesse dirsi capo sopra tutte l'altre. Ciascuna provincia teneva i suoi Giustizieri, Camerari ed altri particolari Ufficiali, nè l'una s'impacciava degli affari dell'altra. Nè in questi tempi il numero delle medesime era moltiplicato in dodici, come fu fatto da poi (se debbiamo prestar fede al Surgente) [54] . Surg. Neap. Illustr. cap. 24 n. 2.
nei tempi di Federico; ma le nostre regioni erano divise secondo i Giustizieri, che si mandavano a reggerle, onde presero il nome di Giustizierati e poi di province, governandosi da' Presidi, come s'intenderà meglio ne' libri che seguiranno di questa Istoria.
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