Alessandro Manzoni - Brani inediti dei Promessi Sposi. Opere di Alessando Manzoni vol. 2 parte 2
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Brani inediti dei Promessi Sposi. Opere di Alessando Manzoni vol. 2 parte 2: краткое содержание, описание и аннотация
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Giambattista Niccolini a Firenze e Felice Belletti a Milano non si fidavano del proprio giudizio e aspettavano quello «del sesso gentile». Il Niccolini era «impaziente» da un pezzo di vedere i Promessi Sposi del Manzoni e I Lombardi alla prima crociata del Grossi, «avendo in gran concetto il loro ingegno»; come scrisse al conte Fracavalli il 20 decembre del '25. Nell'aprile del '26 chiedeva a Felice Bellotti: «Il romanzo del Manzoni quando uscirà?» Gli rispose il 29: «Del romanzo di Manzoni altra notizia non posso darvi, se non che tra un mese si comincerà la stampa del terzo ed ultimo tomo, essendo già finiti i due primi, che però l'autore non vuol dar fuori se non insieme con l'altro. Sicchè non penso che prima del luglio si potrà leggere». Il 2 agosto del '27 il Bellotti tornò a scrivergli: «Del Romanzo di Manzoni, del quale eravate curioso, or che l'avrete letto, che ve ne pare? Ha esso nel vostro senso adempiuta l'aspettazione che se ne avea? Le donne di Toscana lo leggono con piacere? poichè di tal genere di scritture alle donne principalmente, ed al popolo non idiota e non letterato, si vuol lasciare il giudizio, essendo principalmente diretto al loro trattenimento e vantaggio. Se non che moltissimo io stimo il giudizio di quei dotti (ma son pochi), i quali sanno farsi a giudicare anche di romanzi, messe da parte certe prevenzioni e pretensioni importune: e chi più di voi sagace nel discernere quali siano queste e più giusto nello scartarle?» Ecco la risposta del Niccolini: «Il Manzoni è qui, ed ho imparato a conoscerlo di persona: voi sapete che i buoni si credono volentieri grandi: ma non temo che l'affetto m'inganni, reputandolo il primo ingegno d'Italia 17. Ho letto il suo romanzo tutto d'un fiato; ma non mi fido del mio giudizio, e aspetto anch'io quello del sesso gentile».
Il Rosmini piglia pure a ragguagliare gli amici intorno la fortuna del libro: «I Promessi Sposi sono avidamente letti, a malgrado della lunghezza, che da tutti sento notare»; così al Tommaseo, in un biglietto del 22 settembre '27. L'8 di novembre annunzia a un altro amico: «Il Manzoni trionfò in Toscana; il suo romanzo è tradotto in francese: si rende anche tedesco e parlasi d'una traduzione inglese. Sono di quei pochi uomini che fanno ancora varcare il mare e l'alpi il nome italiano». Il 22 di decembre torna a ripetere: «De' Promessi Sposi già se ne sono fatte tredici edizioni, credo, e traduzioni in tedesco, in inglese, in francese. Pochi libri italiani hanno mai avuto tanto favore in Italia». Al Manzoni poi scriveva il 26 marzo del '30: «qui i Promessi Sposi sono applauditissimi dal fiore di Roma; e quelli che non la cedono a nessuno in commendarli e in proporli alla gioventù sono i Gesuiti». Monaldo Leopardi lo conferma in una lettera a Giacomo: «Appena letto quel Romanzo ne fui rapito e lo giudicai prezioso non tanto alle lettere, quanto alla religione e alla morale. Ebbi poi molta compiacenza nel sentire che in Roma i confessori Gesuiti lo danno a leggere alle loro penitenti» 18.
Nel settembre del 1827 Raffaele Lambruschini, discorrendo nell' Antologia di Firenze d'una ristampa del Quaresimale del Segneri e delle Prediche alla Corte del Turchi , ricordò, per incidenza, i Promessi Sposi, «che ora sono nelle mani di tutti; notabile produzione d'un uomo in cui non si saprebbe cosa ammirare di più, se i talenti o le doti del cuore, e di cui la nostra età e la nostra Italia hanno ragione d'inorgoglirsi». E nel ricordarli, ne riportò anche un brano: il colloquio tra il Cardinal Federigo e l'Innominato. «Si tratta» (così il Lambruschini), «da una parte, di un potente, rinomato per ardite ribalderie e per empietà, temuto ed odiato da tutti; dall'altra, di un sant'uomo, che trovandosi nella più ardita impresa a cui si possa accingere un sacro oratore, non adopra altre ragioni e altra eloquenza che quella dei semplici e degli umili» 19. Lapo de' Ricci in una lettera inedita a Gio. Pietro Vieusseux, del 25 settembre 1827, piglia a dire: «L'articolo del Larabruschini è un capo d'opera nel suo genere; i preti non gliene sapranno buon grado, perchè vorrebbero dominare ed esser asini. L'ho letto a pezzi e brani a questo mio paroco, giacchè per l'intiero non era possibile farglici prestare attenzione, ma ne ho letto tanto per scuoterlo, e per commoverlo, finchè sentendo il sublime colloquio del Cardinal Federigo coll'Innominato ha dovuto piangere, ed ecco una vittoria per la morale». Lapo volle manifestare anche a Gino Capponi l'impressione profonda che aveva ricevuto dalla lettura de' Promessi Sposi , e gli scrisse il 4 gennaio del '28: «Non mi riesce di levarmi dal tavolino quel diavolo di Manzoni. Io credo di averlo letto per intiero sei volte, e dieci volte l'Innominato col Cardinal Federigo, e sempre ho pianto; come faceva, e forse più di quel che faceva, quello scellerato convertito. Scrissi a Vieusseux che leggendo quel tratto al mio curato, per quanto più giocatore che leggitore, più bevitore che uditore, lo feci piangere; ho anche sentito soffiarsi il naso, ho veduto far contorcimenti ad alcuno dei miei contadini (e non sono dei più delicati campagnoli), mentre glielo leggeva. Qualcheduno, che aveva sentito leggere i Promessi Sposi , una sera ha lasciato la partita dei quadrigliati per venire alla panca di cucina, che è la sala di riunione, per sentirmi leggere. Hanno tutti riso a Don Abbondio, ed hanno trovato il confronto subito: fra Galdino è tale quale fra Bonaventura di Radda , diceva un altro: certi miracoli senza sugo ; ma sentito il pane del perdono di fra Cristoforo, silenzio, e pianto nascosto: perchè un contadino, che piange raramente, e soltanto perchè gli è morto il bue o l'asino, trova impossibile che si deva piangere sentendo leggere… Ma quel Conte zio! ne conosci tu con quel parlare misterioso? io sì. E quella sommossa di Milano! E Renzo che gli pareva aver fatto amicizia col Gran Cancelliere! E il Notaro, che dice che è per pura formalità che lo fa condurre in prigione! E la Monaca per forza! e che so io? Vi può esser egli più verità? più effetto? Io m'inquieterei come il Prior Albizzi con quei letterati che vogliono giudicarne letterariamente, o che vorrebbero far cambiare il romanzo perchè dicesse a loro modo. Quel libro mi pare che non possa appartenere alla parte letteraria: è un gran libro di morale; e tale, io crederei, da fare una rivoluzione come il Don Quichotte , se un libro potesse far cambiare gl'istinti del cuore umano».
Mentre Lapo de' Ricci, che era semplicemente un colto gentiluomo, non rifinisce di leggere il dialogo tra il Cardinal Federigo e l'Innominato, e quel dialogo gli strappa le lagrime; un letterato, e famoso, Francesco Domenico Guerrazzi, scrive, che del Cardinal Federigo «il Manzoni potè fare un santo, ma non avrebbe mai potuto farne un galantuomo» 20. Non c'è che dire; tutti i gusti son gusti! Col P. Cristoforo invece fu benevolo; e in un bizzarro giro che la sua fantasia fece fare al Romanzo storico, menato che l'ha in Italia «per ricrearsi», lo conduce «pei colli della Brianza, dove conobbe Renzo e Lucia, prese tabacco nella scatola di fra Cristoforo 21: un degno frate in verità, ma il Romanzo dentro un orecchio ai suoi amici susurrava sommesso, che tre quarti delle virtù del frate Cristoforo, Alessandro Manzoni le aveva tolte a nolo da lui» 22.
Terenzio Mamiami, che era a Firenze nel 1827 quando vi andò il Manzoni, racconta: «io l'ho veduto impacciato fuor modo degli encomii infiniti che gli suonavano intorno. Rispondeva con parole poche ed avviluppate e arrossiva tuttavia a somiglianza di fanciulla. Spesso il Leopardi assisteva a codeste apoteosi. Ed io, vedutolo una sera rincantucciato e solo, mentre il fiore de' letterari e degli studiosi affollavasi intorno al Manzoni, lo incitai a manifestare quello che gliene paresse. Me ne pare assai bene, rispose, e godo che i Fiorentini non si dimentichino della gentilezza antica e dell'essere stati maravigliosi nel culto dell'arte». Aggiunge: «Pochi anni dopo io l'udivo in Firenze esprimere intorno al Manzoni questa riservata sentenza. Che l'avere eletto pel suo romanzo una dell'epoche più sventurate e servili delle storie italiane dee nascondere molte ragioni ed assai poderose 23; ma certo non appariscono, e sembra invece uscire dal suo racconto la deplorevole conseguenza che del presente non bisogna zittire, dacchè gl'Italiani altre volte si trovarono molto peggio e l'Austriaco vale un oro a petto del Castigliano» 24.
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