Volodyk - Paolini2-Eldest
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Stiamo per affrontare uno dei più grandi eserciti della storia, e stiamo qui a scambiarci convenevoli. Pazienza, lo ammonì Saphira. Ne mancano pochi ormai...
Considerala così: se vinciamo, potremo cenare gratis per un anno intero, con tutti questi inviti.
Eragon represse una risata. Credo che si rimangerebbero la parola, se sapessero quanto ci vuole per sfamarti. Per non parlare di come svuoteresti le loro cantine in una sola notte di bevute.
Non lo farei mai, sbuffò lei. Magari in due.
Quando finalmente presero congedo dal padiglione di Orrin, Eragon chiese a Nasuada: «Che cosa devo fare adesso? Come posso servirti?»
Nasuada lo guardò con una strana espressione. «Come pensi tu di potermi servire meglio, Eragon? Tu sai che cosa sei in grado di fare molto meglio di me.» Perfino Arya lo guardò in quel momento, in attesa di sentire la sua risposta. Eragon alzò gli occhi verso il cielo rosseggiante per riflettere. «Assumerò il controllo del Du Vrangr Gata, come una volta mi chiesero di fare, e li organizzerò per poterli guidare in battaglia. Se agiremo uniti, avremo migliori probabilità di sconfiggere gli stregoni di Galbatorix.»
«Mi sembra un'idea eccellente.»
C'è un posto, intervenne Saphira, dove Eragon può lasciare le bisacce? Non voglio portarle a passeggio più del necessario.
Quando Eragon ripetè la domanda, Nasuada disse: «Ma certo. Puoi deporle nel mio padiglione, e darò disposizioni perché montino una tenda per te, Eragon, dove potrai lasciarle per tutto il tempo che vorrai. Tuttavia ti suggerisco di indossare la tua armatura, prima. Potresti averne bisogno da un momento all'altro... Il che mi rammenta una cosa: abbiamo portato con noi la tua corazza, Saphira. Manderò a prenderla subito.»
«E io che cosa dovrei fare, ledy Nasuada?» chiese Orik.
«Con noi sono venuti diversi knurlan del Dùrgrimst Ingietum, della cui profonda esperienza ci siamo serviti per scavare trincee e innalzare terrapieni. Puoi assumere il loro comando, se lo desideri.»
Orik s'illuminò alla prospettiva d'incontrare altri nani, e per di più del suo stesso clan. Si battè il pugno sul petto e disse: «Lo desidero eccome, mia signora. Ora, se vuoi scusarmi, andrò subito da loro.» E senza indugiare un secondo di più, il nano si volse e si allontanò trotterellando per l'accampamento, puntando a nord, verso le fortificazioni. Tornata al suo padiglione con i quattro rimasti, Nasuada disse a Eragon: «Vieni a riferirmi quando avrai stabilito la strategia col Du Vrangr Gata.» Poi scostò il lembo di tenda dell'ingresso ed entrò nel padiglione, seguita come un'ombra da Elva.
Quando Arya fece per entrare, Eragon tese una mano verso di lei e nell'antica lingua le disse: «Aspetta!» L'elfa si fermò a guardarlo, senza tradire alcuna emozione. Lui sostenne il suo sguardo senza vacillare, fissandola negli occhi, che riflettevano la strana luce intorno a loro. «Arya, non mi scuserò per ciò che provo per te. Ma voglio che tu sappia che mi dispiace per come mi sono comportato durante l'Agaeti Blòdhren. Non ero me stesso quella notte; altrimenti non sarei mai stato così esplicito con te.»
«E non lo farai più?»
Lui le rivolse un sorriso amaro. «Se lo facessi, otterrei forse qualcosa?» Quando lei rimase in silenzio, aggiunse: «Non importa. Non voglio più importunarti, anche se tu...» Si morse le labbra, prima di dire qualcosa di cui sapeva si sarebbe pentito.
L'espressione di Arya si addolcì. «Non ho alcuna intenzione di ferirti, Eragon. Devi capirlo.»
«Capisco» disse lui, ma senza convinzione.
Un lungo, scomodo silenzio seguì fra di loro. «Il volo è andato bene?»
«Abbastanza bene, grazie.»
«Non avete incontrato nessuna difficoltà nel deserto?»
«Avremmo dovuto?»
«No. Volevo soltanto sapere.» Poi, in tono più gentile, Arya gli chiese: «E tu, Eragon? Come sei stato da dopo la celebrazione? Ho ascoltato quello che hai detto a Nasuada, ma non hai parlato che della tua schiena.» «Io...» Eragon cercò di mentire - non voleva che lei sapesse quanto gli era mancata - ma l'antica lingua gli trattenne le parole in gola e lo rese muto. Allora ricorse alla tecnica degli elfi: dire soltanto una parte della verità per dare l'impressione della verità opposta. «Sto meglio di prima» concluse, riferendosi, nella sua mente, soltanto alle condizioni della schiena.
Malgrado il sotterfugio, Arya non parve convinta. Tuttavia non insistette e disse invece: «Ne sono lieta.» La voce di Nasuada risuonò dall'interno del padiglione, e Arya scoccò una rapida occhiata alla tenda prima di parlargli ancora. «Si richiede la mia presenza altrove, Eragon... Anche tu devi andare. Ci aspetta una battaglia.» Sollevando i lembi di tela, l'elfa si accinse a entrare, ma si fermò sulla soglia e voltandosi aggiunse: «Abbi cura di te, Eragon Ammazzaspettri.» E scomparve nel padiglione.
Eragon rimase impietrito dallo sconforto. Aveva fatto quello che desiderava, ma sembrava che non fosse cambiato nulla fra lui e Arya. Strinse i pugni e incurvò le spalle, fissando truce il terreno senza vederlo, fremente di delusione. Trasalì quando Saphira gli sfiorò la spalla con il muso. Andiamo, piccolo mio, gli disse lei con dolcezza. Non puoi restare qui per sempre, e questa sella comincia a darmi fastidio.
Eragon cominciò a slegarle la cinghia del collo, imprecando fra i denti quando la fibbia s'incastrò. Sperò quasi che il cuoio si spezzasse. Dopo aver slegato tutte le altre cinghie, lasciò scivolare la sella e il resto per terra. Mi sento meglio senza quella roba addosso, disse Saphira soddisfatta, sciogliendosi le spalle.
Dalle bisacce, Eragon estrasse i vari elementi della sua armatura e li indossò. Per primo indossò l'usbergo sulla tunica elfica, poi si allacciò gli schinieri e i bracciali. In testa si mise la calotta di pelle imbottita, la cuffia di maglia di acciaio temprato, e infine l'elmo d'oro e d'argento. Infine sostituì i consueti guanti di pelle con quelli d'acciaio. Allacciò in vita la cintura di Beloth il Savio, da cui pendeva Zar'roc sul fianco sinistro. Infilò a tracolla la faretra di frecce dal candido impennaggio che gli aveva donato Islanzadi, e scoprì con piacere che poteva contenere anche l'arco che la regina elfica aveva cantato per lui.
Dopo aver depositato i bagagli suoi e di Orik nel padiglione, Eragon e Saphira andarono in cerca di Trianna, l'attuale guida del Du Vrangr Gata. Non avevano fatto che pochi passi quando Eragon percepì una mente vicina che si schermava dalla sua. Immaginando che si trattasse di uno dei maghi dei Varden, si diressero da quella parte. A una decina di iarde di distanza s'imbatterono in una piccola tenda verde, con un asino legato all'ingresso. A sinistra della tenda ribolliva un calderone di ferro annerito appeso a un tripode di metallo collocato su una delle nauseabonde fiamme che scaturivano dalla terra. Intorno al calderone erano tese corde da cui pendevano mazzetti di belladonna, cicuta, rododendro, sabina, corteccia di tasso, e svariati funghi, fra cui l'amanita falloide e l'ovolaccio, tutte piante che Eragon riconobbe grazie alle lezioni di Oromis sui veleni. Dietro il calderone, intenta a rimestare con un lungo ramaiolo di legno, c'era Angela l'erborista. Ai suoi piedi era acciambellato Solembum.
Il gatto mannaro emise un lugubre miagolio, e Angela alzò gli occhi dall'intruglio fumante, i riccioli neri che le incorniciavano il volto sudato come nuvole tempestose.
Aggrottò la fronte e la sua espressione divenne veramente spettrale, illuminata dal basso dalla tremolante fiamma verde. «E così siete tornati, eh?»
«Siamo tornati» disse Eragon.
«Non hai altro da dire? Hai già incontrato Elva? Hai visto cos'hai fatto a quella povera bambina?» «Sì.»
«Sì!» esclamò Angela. «Fin dove può arrivare l'incapacità di esprimersi di una persona? Tutto questo tempo passato a Ellesméra a farti addestrare dagli elfi, e "Sì" è il massimo che riesci a dire? Lascia che ti dica una cosa, zuccone: chiunque sia abbastanza stupido da fare quello che hai fatto merita di...»
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