Volodyk - Paolini2-Eldest

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Un brivido corse lungo la schiena di Eragon nel ricordare la premonizione: masse di guerrieri che si scontravano su un campo giallo e arancio, accompagnate dalle grida rauche dei corvi e dal sibilo delle frecce nere. Rabbrividì ancora. Il destino converge su di noi, disse a Saphira. Poi, indicando la mappa: Hai visto abbastanza?

Sì.

Muovendosi in fretta, lui e Orik infilarono le provviste nelle bisacce, rimontarono su Saphira, e dalla sua groppa ringraziarono Dahwar per i suoi servigi. Mentre Saphira stava per prendere il volo, Eragon trasalì: una nota discordante risuonava dalle menti che stava chiamando a sé. «Dahwar, due stallieri litigano nelle scuderie, e uno di loro, Tathal, ha intenzione di uccidere l'altro. Puoi fermarlo, però, se ti affretti a mandare là degli uomini.»

Dahwar spalancò gli occhi esterrefatto, e persino Orik si volse a guardare Eragon. Il siniscalco domandò: «Come lo sai, Ammazzaspettri?»

Eragon si limitò a rispondere: «Sono un Cavaliere.»

Poi Saphira dispiegò le ali, e tutti i presenti indietreggiarono rapidi per non essere investiti dallo spostamento d'aria quando la dragonessa le spinse verso il basso e si librò nel cielo. Mentre il Castello Farnaci rimpiccioliva dietro di loro, Orik chiese: «Riesci a sentire i miei pensieri, Eragon?»

«Vuoi che ci provi? Non l'ho mai fatto, lo sai.»

«Prova.»

Aggrottando la fronte, Eragon concentrò la sua attenzione sulla coscienza del nano e rimase sorpreso nel trovarla ben protetta da forti barriere mentali. Percepiva la presenza di Orik, ma non i suoi pensieri e le sue sensazioni. «Niente.» Orik sogghignò, soddisfatto. «Bene. Volevo essere sicuro di non aver dimenticato le antiche lezioni.» Per tacito accordo, non si fermarono per la notte, ma continuarono a volare nel cielo buio. Non c'era traccia di luna o di stelle, né luci né distanti chiarori a illuminare le tenebre opprimenti. Le ore si trascinarono lente, aggrappandosi a ogni secondo, come riluttanti a concedersi al passato.

Quando finalmente tornò il sole, portando con sé la sospirata luce, Saphira si posò sulle rive di un laghetto perché Eragon e Orik potessero sgranchirsi le gambe, rinfrescarsi e fare colazione senza il costante movimento che subivano stando sulla sua schiena.

Si erano appena levati di nuovo in volo quando una lunga e bassa nube marrone comparve all'orizzonte, come una macchia d'inchiostro scuro su un foglio di carta immacolato. La nube divenne sempre più ampia a mano a mano che Saphira si avvicinava, finché nella tarda mattinata non arrivò a oscurare l'intera terra sotto una cappa di vapori nauseabondi.

Avevano raggiunto le Pianure Ardenti di Alagaésia.

Le Pianure Ardenti

Eragon tossì mentre Saphira perforava lo strato di fumo planando verso il fiume Jiet, nascosto dalla densa foschia. Socchiuse le palpebre e si asciugò le lacrime. I vapori acri gli bruciavano gli occhi.

Vicino al suolo, l'aria era più limpida e permise a Eragon di avere una visuale completa della loro destinazione. Il velo increspato di fumo nero e rosso filtrava i raggi del sole in maniera tale che ogni cosa al di sotto era immersa in una malsana luce arancione. Squarci sporadici nel cielo offuscato lasciavano passare pallidi raggi di luce che colpivano il terreno, dove restavano come pilastri di vetro translucido finché non venivano recisi dalle nubi in movimento. Il fiume Jiet scorreva davanti a loro, gonfio e sinuoso come un serpente satollo; la superficie screziata di ombre rifletteva la stessa spettrale sfumatura che pervadeva le Pianure

incontaminata illuminava il fiume, l'acqua appariva opaca, gessosa,

sembrava risplendere di luce propria.

Ardenti. Perfino quando un raggio di luce come il latte di qualche bestia spaventosa, e

Due eserciti erano schierati lungo la riva orientale del fiume. A sud c'erano i Varden e gli uomini del Surda, appostati dietro numerosi baluardi difensivi, dove avevano disposto eleganti vessilli, file di tende e i destrieri della cavalleria reale di Orrin. Per quanto apparissero forti, il loro numero impallidiva al confronto con la moltitudine di forze assemblate a nord. L'esercito di Galbatorix era così imponente che misurava tre miglia da parte a parte, e quante miglia in lunghezza era impossibile da stabilire, perché i singoli individui si confondevano in una massa scura in lontananza. Fra i due schieramenti di acerrimi nemici c'era una zona franca larga all'incirca due miglia. Quella terra, e la terra su cui erano accampate le milizie, era costellata da innumerevoli orifizi da cui guizzavano verdi lingue di fuoco. Era da quelle livide torce che si levavano i fumi che oscuravano il sole. Non esisteva una sola traccia di vegetazione sul terreno bruciato, a parte chiazze di licheni neri, arancione e verdognoli che dall'alto conferivano alla terra un aspetto pustoloso e infetto.

Era il panorama più ostile che Eragon avesse mai visto.

Saphira emerse dalla cappa di nubi sulla terra di nessuno che separava i due schieramenti; virò e scese in picchiata verso i Varden, alla massima velocità possibile, poiché fino a quando rimanevano esposti all'Impero erano vulnerabili agli attacchi di stregoni nemici. Eragon dilatò la mente in ogni direzione, in cerca di coscienze ostili che potessero percepire la sua presenza invasiva e reagire: le menti degli stregoni e quelle di coloro che erano addestrati a difendersi dagli stregoni.

Quello che invece avvertì fu l'improvviso panico che travolse le sentinelle dei Varden, molte delle quali, si rese conto, non avevano mai visto Saphira. La paura fece loro ignorare il buon senso, e scagliarono un nugolo di frecce per intercettarla.

Alzando la mano destra, Eragon gridò: «Letta orya thorna!» Le frecce si arrestarono in aria. Con uno scatto del polso e la parola "Ganga", Eragon le deviò verso la terra di nessuno, dove si conficcarono nel terreno bruciato senza fare danni. Soltanto una freccia gli sfuggì, perché era stata scagliata qualche secondo dopo la prima raffica. Sporgendosi il più possibile a destra, e più rapido di qualsiasi umano, Eragon afferrò la freccia in volo mentre Saphira la incrociava.

Ad appena cento piedi dal suolo, Saphira dispiegò le ali per rallentare la discesa, e atterrò prima sulle zampe posteriori e poi su quelle anteriori, piombando fra le tende dei Varden spinta dall'inerzia.

«Werg» ringhiò Orik, sciogliendo le cinghie che gli serravano le gambe. «Preferirei trovarmi faccia a faccia con una dozzina di Kull piuttosto che ripetere un atterraggio del genere.» Si lasciò penzolare da un lato della sella, poi saltò sulla zampa davanti di Saphira e da lì, sul terreno.

Mentre anche Eragon smontava, decine di guerrieri attoniti si radunarono intorno a Saphira. Dal centro della mischia si fece largo a spintoni un energumeno che Eragon riconobbe all'istante: era Fredric, il maestro d'armi dei Varden nel Farthen Dùr, che indossava come sempre la corazza irsuta di pelle di bue. «Chiudete quelle bocche penzoloni, idioti!» ruggì Fredric. «Non restate lì impalati; tornate ai vostri posti o vi faccio assegnare il doppio dei turni!» Alle sue parole, la folla cominciò a disperdersi, fra borbottii risentiti e occhiate furtive. Quando Fredric si avvicinò, Eragon notò la sua reazione davanti al proprio aspetto tanto mutato. L'omaccione barbuto fece del suo meglio per nascondere lo stupore toccandosi la fronte e dicendo: «Benvenuto, Ammazzaspettri. Sei arrivato giusto in tempo... Non sai quanto mi vergogno per quell'aggressione. L'onore di ogni uomo sarà macchiato da questa ignominia. Siete rimasti feriti?» «No.»

Il volto di Fredric si distese. «Be', ne sono lieto. Ho fatto sollevare dall'incarico i responsabili. Saranno frustati e degradati... Quale punizione ti sembra più opportuna, Cavaliere?» «Voglio vederli» disse Eragon.

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