Volodyk - Paolini2-Eldest

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«Mai?»

Orik scosse il capo senza parlare.

Gruppi di elfi sciamarono dalla Du Weldenvarden per radunarsi ai margini del campo e osservare con espressione solenne Saphira che sollevava le ali translucide per spiccare il volo.

Eragon rafforzò la presa quando avvertì i muscoli della dragonessa gonfiarsi sotto di lui. Con una rapida e potente spinta, Saphira si lanciò verso il cielo azzurro, battendo le ali veloce per levarsi al di sopra degli alberi. Volò in circolo sulla grande foresta, guadagnando quota a ogni spirale, poi puntò a sud, verso il Deserto di Hadarac. Sebbene il vento ululasse nelle sue orecchie, Eragon sentì la voce limpida di un'elfa di Ellesméra che cantava: Volerai, volerai, lontano volerai, sui picchi e sulle valli fino alle perdute terre. Volerai, volerai, lontano volerai, e da me più non tornerai...

Le fauci dell'oceano

Il mare di ossidiana si gonfiò sotto l'Ala di Drago, spinI gendo la nave verso il cielo. Il vascello rimase in bilico per qualche istante sulla cresta di un'onda spumeggiante prima di puntare la prua verso il basso e precipitare nell'avvallamento successivo. L'aria gelida era spazzata da turbini di nebbiolina pungente, sospinta dal vento che ululava come uno spirito mostruoso.

A mezzanave, Roran si tenne stretto alle sartie di dritta e vomitò oltre il parapetto; non gli uscì altro che acida bile. Si era tanto vantato del fatto che il suo stomaco non gli avesse dato problemi durante il viaggio sulla chiatta di Clovis, ma la tempesta in cui erano incappati era così violenta che persino gli uomini di Uthar, marinai avvezzi a ogni tempo, avevano difficoltà a tenere il whisky in corpo.

Gli parve di essere colpito da un macigno di ghiaccio fra le scapole quando un'ondata investì la nave al traverso, inondando il ponte prima di scorrere via dagli ombrinali per tornare nel furioso, scatenato, schiumoso oceano da dove era venuta. Roran si asciugò l'acqua salata dagli occhi con le dita intorpidite dal gelo come ciocchi di legno, e strizzò le palpebre per scrutare l'orizzonte a poppa.

Forse la tempesta farà loro perdere le nostre tracce. Tre corvette dalle vele nere li inseguivano fin da quando avevano superato le Scogliere di Ferro e doppiato quello che Jeod aveva chiamato Edur Carthungavé, e Uthar lo Sperone di Rathbar. «La coda della Grande Dorsale» aveva detto Uthar, sogghignando. Le corvette erano più veloci dell'Ala di Drago, appesantita dalla moltitudine di passeggeri, e si erano sempre più avvicinate alla nave mercantile fino a potersi scambiare nugoli di frecce.

Sembrava inoltre che la corvetta in testa imbarcasse uno stregone, perché le sue frecce erano innaturalmente precise: spezzavano le cime, distruggevano le baliste e bloccavano i bozzelli. Dai loro attacchi, Roran dedusse che all'Impero non importava più di catturarlo vivo, ma soltanto di impedirgli di raggiungere i Varden. Aveva appena preparato i compaesani a respingere un abbordaggio, quando le nubi sopra di loro si erano addensate in un livido colore viola, cariche di pioggia, e una tempesta furiosa si era scatenata da nordovest. Al momento, Uthar stava bordeggiando con il vento al traverso, diretto verso le Isole Meridionali, dove sperava di eludere le corvette tra i fondali bassi e gli anfratti di Beirland.

Un fulmine orizzontale balenò fra due enormi cumulonembi,

trasformando il mondo in un quadro di pallido marmo, prima che le tenebre tornassero sovrane. Ogni lampo accecante imprimeva un'immagine fissa negli occhi di Roran, pulsando anche dopo che la luce era svanita.

Poi cadde una serie di fulmini a zigzag, e Roran vide come in una successione di dipinti monocromatici - l'albero di contromezzana torcersi, spezzarsi e cadere a sinistra nel mare ribollente. Aggrappandosi a una sagola di sicurezza, salì sul casseretto e, insieme a Bonden, mozzarono i cavi che ancora collegavano l'albero all'Ala di Drago facendola affondare di poppa. I cavi si contorsero come serpenti quando furono tagliati.

Roran si accasciò sul ponte, il braccio destro agganciato al parapetto, mentre la nave sprofondava di venti, trenta piedi in un avvallamento. Un'onda lo travolse, sottraendogli gli ultimi residui di calore dalle ossa. Il suo corpo era scosso dai brividi.

Non farmi morire così, pregò, anche se non sapeva a chi stesse rivolgendo la sua supplica. Non fra queste onde crudeli. Il mio compito non è ancora finito. Durante quella lunga notte, si aggrappò ai ricordi di Katrina, traendone conforto quando si sentiva esausto e la speranza minacciava di abbandonarlo.

La tempesta durò due giorni interi e cominciò a placarsi soltanto qualche ora prima dell'alba. Il mattino si annunciò con un cielo limpido, screziato di rosa, e tre vele nere all'orizzonte a nord. A sud, il profilo brumoso di Beirland si stagliava sotto una cortina di nubi raccolte intorno alla montagna frastagliata che dominava l'isola.

Roran, Jeod e Uthar s'incontrarono in una piccola cabina di prua - dato che quella del comandante era stata adibita a infermeria - dove Uthar srotolò alcune cartine nautiche e indicò un punto al largo di Beirland. «Qui è dove ci troviamo adesso» disse. Prese una mappa più grande di Alagaésia e indicò la foce del fiume Jiet. «E questa sarà la nostra destinazione, poiché i viveri non ci bastano per arrivare a Roccascissa. Come ci arriveremo senza essere presi è un altro paio di maniche. Senza l'albero di contromezzana, quelle maledette corvette ci raggiungeranno entro domani a mezzogiorno, al massimo entro sera, se ci va bene.»

«Non possiamo sostituire l'albero?» chiese Jeod. «So che vascelli di questa stazza portano sempre alberi di rispetto per riparazioni di questo genere.»

Uthar scrollò le spalle. «Potremmo, se avessimo un buon carpentiere navale a bordo. Ma siccome non ce l'abbiamo, non permetterò che mani inesperte montino l'albero col rischio che poi si schianti sul ponte e ferisca qualcuno.» Roran osservò: «Se non fosse per lo stregone, o gli stregoni,

io avrei detto di combattere, dato che siamo molto più numerosi degli equipaggi delle corvette. Ma eviterei uno scontro diretto. Mi sembra difficile poter vincere, considerando quante navi inviate in aiuto dei Varden sono scomparse.» Con un borbottio, Uthar tracciò un cerchio intorno alla loro attuale posizione. «Questa è la massima distanza che saremo in grado di coprire entro domani sera, purché il vento ci sia favorevole. Potremmo attraccare da qualche parte fra Beirland e Nìa, se volessimo, ma non vedo come questo possa esserci d'aiuto. Ci troveremmo in trappola. I soldati di quelle corvette o i Ra'zac o Galbatorix ci potrebbero stanare in qualsiasi momento.»

Roran aggrottò la fronte meditando sulle alternative: una battaglia con le corvette sembrava inevitabile. Per lunghi minuti l'unico rumore dentro la cabina fu lo sciabordio delle onde contro lo scafo. Poi Jeod posò il dito sulla mappa fra Beirland e Nia, guardò Uthar e disse: «Che ne pensi dell'Occhio del Cinghiale?»

Roran rimase sorpreso quando vide impallidire la faccia del rude lupo di mare. «Non ci penso neppure, mastro Jeod. Non correrei mai quel rischio. Preferirei affrontare le corvette e morire in mare aperto piuttosto che sfidare quel luogo maledetto. Ha inghiottito più navi di quante ne abbia l'intera flotta di Galbatorix.»

«Eppure mi pare di ricordare» insistette Jeod, appoggiandosi allo schienale «che il passaggio è sicuro al culmine dell'alta e della bassa marea. O mi sbaglio?»

Con grande, palese riluttanza, Uthar ammise: «No, è giusto, ma l'Occhio è così vasto che occorre calcolare i tempi alla perfezione per evitare il disastro. Non ce la faremo, con quelle corvette alle calcagna.»

«Ma se potessimo» continuò Jeod, «se riuscissimo a calcolare i tempi, le corvette andrebbero distrutte, oppure, se il coraggio mancasse loro, sarebbero costrette a circumnavigare Ma. In questo caso avremmo il tempo di trovare un nascondiglio.»

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