Volodyk - Paolini2-Eldest
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Proprio mentre richiudeva il rotolo, Blagden entrò dal varco nella parete e con un frullo d'ali si posò su un angolo della scrivania intagliata. Il corvo bianco fissò Eragon f con gli occhietti rotondi e gracchiò: «Wyrda!» Eragon chinò il capo. «E che le stelle ti proteggano, mastro Blagden.» Il corvo zampettò più vicino. Inclinò la testa da un lato ed emise un colpo di tosse, come se si stesse schiarendo la gola, poi recitò con voce roca:
Per il becco e l'osso,
con la mia pietra nera posso
vedere inganni, tradimenti
e insanguinate correnti!
«Cosa significa?» chiese Eragon.
Blagden scrollò le spalle e ripetè i versi. Quando Eragon insistette per avere una spiegazione, l'uccello arruffò le penne, con aria delusa, e gracchiò: «Tale padre tale figlio, ciechi come talpe.»
«Aspetta!» esclamò Eragon, balzando in piedi. «Conosci mio padre? Chi è?»
Blagden tossicchiò ancora. Questa volta parve che ridesse.
Se due può dividere due,
e uno di due è certamente uno,
uno potrebbe essere due.
«Un nome, Blagden. Dammi un nome!» Davanti all'ostinato silenzio del corvo, Eragon dilatò la mente per carpire l'informazione dai ricordi dell'uccello.
Ma Blagden era scaltro e deviò la sonda mentale di Eragon con un guizzo di pensiero. Strillando: «Wyrda!» si avventò sul tappo di vetro di una boccetta d'inchiostro e si allontanò in volo con il trofeo stretto nel becco. Scomparve alla vista ancor prima che Eragon potesse evocare un incantesimo per riportarlo indietro.
Eragon si sentì attanagliare le viscere mentre cercava di decifrare i due enigmi di Blagden. L'ultima cosa che si sarebbe aspettato era di sentir parlare di suo padre a Ellesméra. Infine borbottò: «E sia.» Scoverò Blagden e gli strapperò la verità. Ma per il momento... dovrei essere un pazzo per ignorare quelle visioni. Corse di sotto e svegliò Saphira con la mente per raccontarle quello che aveva visto durante la notte. Preso lo specchio nel camerino da bagno, Eragon si sedette fra le due zampe anteriori di Saphira perché anche lei vedesse quello che vedeva lui.
Arya non gradirà un'invasione della sua intimità, l'ammonì Saphira. Devo sapere se è al sicuro.
Saphira accettò senza altre proteste. Come farai a trovarla? Hai detto che dopo la sua prigionia ha eretto intorno a sé barriere magiche, come la tua collana, per impedire a chiunque di divinarla.
Se riesco a divinare le persone che sono con lei, forse riuscirò a vedere come sta. Concentrandosi su un'immagine di Nasuada, Eragon passò una mano sullo specchio e pronunciò la consueta frase: «Rifletti l'immagine!» Lo specchio tremolò e divenne bianco, mostrando soltanto nove persone sedute intorno a un tavolo. Fra di loro, Eragon riconobbe Nasuada e il Consiglio degli Anziani, ma non riuscì a identificare una strana ragazzina vestita di nero, rannicchiata alle spalle di Nasuada. Rimase sconcertato, perché la cristallomanzia consentiva di divinare cose o persone già viste, ed Eragon era sicuro di non aver mai posato lo sguardo su quella bambina. Se ne dimenticò subito quando si accorse che gli uomini, e perfino Nasuada, erano in tenuta da combattimento.
Ascoltiamo le loro voci, suggerì Saphira.
Nell'istante in cui Eragon apportò la necessaria modifica all'incantesimo, dallo specchio risuonò la voce di Nasuada: "... e il caos ci distruggerà. I nostri guerrieri non possono seguire che un solo comandante in questo conflitto. Decidi chi dovrà essere, Orrin, e in fretta."
Eragon sentì un sospiro disincarnato. "Come desideri; l'incarico è tuo."
"Ma, sire, lei non possiede i requisiti!"
"Basta, Irwin" ordinò il re. "Nasuada ha più esperienza di guerra di chiunque altro nel Surda. E i Varden sono l'unica forza che abbia sconfitto un esercito di Galbatorix. Se Nasuada fosse un generale surdano - ammetto che sarebbe alquanto singolare - non esiteresti un istante a nominarla comandante in capo. Sarò ben lieto di discutere la questione dell'autorità in un secondo momento, perché vorrà dire che sarò ancora vivo, e non sepolto nella mia tomba. Comunque sia, il nostro numero è ancora così esiguo che temo che saremo spacciati se Rothgar non ci raggiungerà prima della fine della settimana. Ora, dov'è quella dannata pergamena sul convoglio delle salmerie?... Ah, ti ringrazio, Arya. Ancora tre giorni senza..."
A quel punto la discussione s'imperniò sulla scarsità di corde per arco; Eragon decise che non gli serviva a niente, così chiuse il contatto. Lo specchio tornò limpido, e lui si ritrovò a fissare il proprio volto.
È viva, mormorò. Il suo sollievo era però adombrato dal significato di quanto aveva udito.
Saphira lo guardò. Hanno bisogno di noi.
Sì. Perché Oromis non ci ha avvertiti? Lui deve saperlo.
Forse non voleva che interrompessimo l'addestramento.
Preoccupato, Eragon si domandò che cos'altro d'importante stesse accadendo in Alagaésia di cui non era a conoscenza. Roran. Con una punta di rimorso, Eragon si rese conto che erano passate settimane da quando aveva pensato l'ultima volta a suo cugino, e ancora di più da quando lo aveva divinato sulla via per Ellesméra. Rinnovando la formula magica, lo specchio rivelò due figure che si stagliavano contro uno sfondo bianco. Ci volle un lungo istante perché Eragon riconoscesse nella figura a destra suo cugino Roran. Indossava logori abiti da viaggio, un martello infilato alla cintura, e una folta barba gli oscurava il volto. La sua espressione tetra tradiva disperazione. A sinistra c'era Jeod. I due uomini si alzavano e si abbassavano, e il fragore delle onde copriva le loro parole. Dopo un po', Roran si volse e s'incamminò lungo quello che Eragon pensò fosse il ponte di una nave, rivelandogli altre decine di compaesani. Dove si trovano, e perché Jeod è con loro? si chiese, perplesso.
Trasferendo la magia da un luogo all'altro, Eragon divinò in rapida successione Teirm - sconvolto nel vedere che il porto della città era andato distrutto - e poi Therinsford, la vecchia fattoria di Garrow, e infine Carvahall. Allora non potè reprimere un grido di angoscia.
Il villaggio era scomparso.
Ogni edificio, compresa la bella casa di Horst, era ridotto a un cumulo di macerie fumanti. Carvahall non esisteva più: era solo una vasta, nera piaga sulle sponde dell'Anora. Le uniche forme di vita rimaste erano quattro lupi grigi che si aggiravano famelici fra le rovine.
Lo specchio gli scivolò di mano e si infranse sul pavimento. Eragon si aggrappò a Saphira, gli occhi colmi di lacrime per il dolore di aver perso le sue radici. Saphira lo confortò con i suoi lievi mormorii gutturali, sfiorandogli il braccio con il muso e avvolgendolo in una calda coperta di compassione. Non ti angustiare troppo, piccolo mio. Se non altro, i tuoi amici sono ancora vivi.
Eragon rabbrividì, mentre un nocciolo duro di determinazione si andava formando nelle sue viscere. Siamo rimasti isolati dal mondo troppo a lungo. È tempo di lasciare Ellesméra e di affrontare il nostro destino, qualunque esso sia. Per il momento, Roran dovrà badare a se stesso, ma i Varden... possiamo aiutare i Varden.
È tempo di combattere, Eragon? chiese Saphira, con una strana sfumatura formale nella voce.
Eragon sapeva che cosa intendeva dire: era tempo di sfidare l'Impero a viso aperto, tempo di uccidere e devastare ai limiti delle loro notevoli capacità, tempo di scatenare ogni oncia della loro rabbia finché Galbatorix non fosse caduto morto ai loro piedi? Era tempo di imbarcarsi in una campagna che forse avrebbe richiesto decenni per concludersi? Sì, è tempo.
Regali di commiato
Eragon impiegò meno di cinque minuti a preparare i bagagli. Prese la sella che gli aveva donato Oromis e la legò sul dorso di Saphira insieme alle bisacce.
Saphira gettò indietro la testa, con le narici dilatate, e disse: Ti aspetto al campo. Con un ruggito si slanciò dalla casa sull'albero con le ali azzurre spiegate e si allontanò sorvolando la foresta.
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