Volodyk - Paolini2-Eldest

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Infine Oromis gli porse un sottile rotolo di pergamena, protetto da un tubo di legno scolpito con un bassorilievo dell'albero di Menoa. Aprendo il rotolo, Eragon vide il poema che aveva recitato all'Agaeti Blodhren. Era scritto con la minuta calligrafia di Oromis e illustrato dagli squisiti disegni a inchiostro dell'elfo. Piante e animali decoravano il primo glifo di ogni quartina, mentre delicate volute

tracciavano le colonne di parole e incorniciavano le immagini.

«Ho pensato» disse Oromis «che ti avrebbe fatto piacere conservare una copia per te.»

Eragon guardò i dodici pregiatissimi diamanti che reggeva con una mano e la pergamena di Oromis nell'altra, sapendo che era il rotolo a essere più prezioso. S'inchinò e, ridotto al linguaggio più essenziale dallo smisurato senso di gratitudine, disse: «Grazie, maestro.»

Poi Oromis lo sorprese cominciando per primo il tradizionale saluto elfico, a indicare così il suo rispetto per Eragon: «Che la fortuna ti assista.»

«Che le stelle ti proteggano.»

«E che la pace regni nel tuo cuore» concluse l'elfo dai capelli d'argento. Ripetè il commiato rivolto a Saphira. «Ora andate e volate più veloci del vento del nord, sapendo che tu, Saphira Squamediluce, e tu, Eragon Ammazzaspettri, portate con voi la benedizione di Oromis, ultimo discendente del Casato di Thràndurin, colui che è sia il Saggio Dolente che lo Storpio Che è Sano.»

E anche la mia, aggiunse Glaedr. Protese il collo e sfiorò la punta del naso di Saphira con il suo, gli occhi dorati che scintillavano come pozzi di brace. Ricorda di mantenere integro il tuo cuore, Saphira. Lei mormorò compunta. Si separarono con un solenne commiato. Saphira si levò in volo sulla fitta foresta, mentre Oromis e Glaedr restavano a guardarli, due figure solitàrie sulla rupe. Malgrado le difficoltà della sua permanenza a Ellesméra, a Eragon sarebbe mancato vivere fra gli elfi, perché tra di loro aveva trovato il posto più vicino a una casa da quando aveva lasciato la Valle Palancar.

Parto da qui come un uomo nuovo, pensò, e chiuse gli occhi, abbracciando il collo di Saphira.

Prima di andare all'appuntamento con Orik, fecero un'ultima sosta: il Palazzo di Tialdari. Saphira atterrò nei giardini interni, attenta a non danneggiare nessuna pianta con la coda o gli artigli. Senza aspettare che la dragonessa si accovacciasse, Eragon balzò a terra, un salto che in precedenza non avrebbe mai potuto compiere senza farsi male. Un elfo andò loro incontro, si toccò le labbra con le due dita e chiese in che cosa poteva essergli utile. Quando Eragon rispose che voleva un'udienza con la regina Islanzadi, l'elfo disse: «Ti prego di aspettare qui, Mano d'Argento.» Meno di cinque minuti più tardi, la regina emerse dai recessi alberati del Palazzo di Tialdari, la tunica cremisi come una goccia di sangue fra i signori e le dame vestiti di bianco che l'accompagnavano. Dopo aver osservato le opportune formule di saluto, la regina disse: «Oromis mi ha informato della vostra intenzione di lasciarci. Mi rincresce molto, ma nessuno può opporsi al volere del fato.»

«No, maestà... maestà, siamo venuti a prendere congedo prima di partire. Sei stata molto generosa con noi, e ringraziamo te e il tuo Casato per averci dato abiti, cibo e alloggio. Siamo in debito con voi.»

«Non sia mai, Cavaliere. Non è stato che un minimo risarcimento per ciò che dobbiamo a te e ai draghi per il nostro misero fallimento nella caduta dei Cavalieri. Tuttavia sono lusingata che abbiate apprezzato la nostra ospitalità.» Fece una pausa. «Quando arriverai nel Surda, porgi i miei saluti a ledy Nasuada e a re Orrin, e informali che i nostri guerrieri attaccheranno presto la metà settentrionale dell'Impero. Se la fortuna ci assiste, coglieremo Galbatorix impreparato e, col dovuto tempo, divideremo le sue forze.»

«Per servirti.»

«Inoltre sappi che ho inviato dodici dei nostri migliori stregoni nel Surda. Se sarai ancora vivo quando arriveranno, risponderanno ai tuoi ordini e faranno del loro meglio per difenderti dal pericolo, notte e giorno.» «Grazie, maestà.»

Islanzadi tese una mano, e uno dei signori elfici le porse una lunga scatola di legno disadorna. «Oromis ti ha fatto dei regali, e questo è il mio. Perché ti ricordi del periodo che hai trascorso con noi sotto gli ombrosi pini.» Aprì la scatola, ed Eragon vide un lungo arco scuro dai bracci flessuosi e dalle estremità ricurve adagiato su un drappo di velluto. Intarsi d'argento e di foglie di sanguinella decoravano le punte e l'impugnatura dell'arco. A fianco c'era una faretra colma di frecce dall'impennaggio di candido cigno. «Ora che condividi la nostra forza, mi è sembrato opportuno che avessi uno dei nostri archi. Ho cantato personalmente questo arco da un albero di tasso. La corda non si spezzerà mai. E finché userai queste frecce, non mancherai mai il bersaglio, anche se avrai il vento contro.»

Ancora una volta, Eragon si sentì sopraffatto dalla generosità degli elfi. S'inchinò. «Cosa posso dire, mia signora? È un privilegio ricevere in dono il lavoro delle tue mani.»

Islanzadi annuì, come se non si aspettasse niente di meno, poi lo oltrepassò e si rivolse a Saphira. «Saphira, non ho doni per te perché non sono riuscita a pensare a niente di cui tu possa aver bisogno o desiderio, ma se c'è qualcosa di nostro che vorresti, non devi far altro che chiedere, e sarà tuo.»

I draghi, replicò Saphira, non hanno bisogno di possedere qualcosa per essere felici. A che ci servono le ricchezze quando la nostra pelle è più gloriosa di qualunque tesoro al mondo? No, sono soddisfatta per la generosità che hai mostrato a Eragon.

Infine Islanzadi augurò loro un viaggio sicuro e tranquillo. Si volse, con un ampio svolazzo del mantello rosso, e fece per andarsene, ma poi si fermò al margine del giardino per dire: «Eragon?»

«Sì, maestà?»

«Quando incontrerai Arya, ti prego di esprimerle il mio affetto e di dirle che ci manca molto, qui a Ellesméra.» Le parole furono rigide e formali. Senza aspettare risposta, la regina si allontanò e scomparve fra i tronchi ombrosi che proteggevano l'interno del Palazzo di Tialdari, col suo seguito di dame e signori.

Saphira impiegò meno di un minuto per volare al campo di addestramento, dove Orik se ne stava seduto sul suo zaino, lanciandosi l'ascia da una mano all'altra, il volto corrucciato. «Era ora» borbottò. Si alzò e si infilò l'ascia nella cintura. Eragon si scusò per il ritardo, poi legò lo zaino di Orik dietro alla sella. Il nano scrutò la spalla di Saphira, che torreggiava su di lui. «Per la barba nera di Morgothal, come diamine faccio a salire lassù? Una rupe ha più appigli di te, Saphira.»

Vieni, disse lei. Si distese sul ventre e allungò di lato la zampa destra, per formare una specie di rampa. Issandosi sullo stinco con un sonoro sbuffo, Orik strisciò carponi lungo la zampa. Una piccola vampa di fuoco eruttò dalle narici della dragonessa. Sbrigati... mi fai il solletico!

Orik si fermò sull'articolazione della coscia, poi passò una gamba dall'altro lato della colonna vertebrale di Saphira e cominciò a risalire verso la sella. Battè la mano su una delle punte cornee del dorso che gli spuntava fra le gambe e disse: «La maniera più efficace per perdere la virilità.»

Eragon sogghignò. «Non scivolare.» Quando Orik si calò sulla parte anteriore della sella, Eragon montò su Saphira e si sedette dietro al nano. Per impedirgli di cadere durante le evoluzioni di Saphira, allentò le cinghie che servivano a legargli le braccia e le fece passare sopra le gambe di Orik.

Quando Saphira si erse in tutta la sua statura, Orik vacillò, poi strinse la punta avanti a sé. «Aarrgh! Eragon, non farmi aprire gli occhi finché non siamo per aria, altrimenti vomito. È una cosa innaturale, ti dico. I nani non sono fatti per cavalcare draghi. Non è mai accaduto prima.»

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