Volodyk - Paolini3-Brisingr
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«Magia...» sussurrò.
«Un incantesimo facile.» Katrina si ritrasse dal suo tocco quando Eragon tese una mano verso di lei. «Katrina, devo assicurarmi che Galbatorix o uno dei suoi maghi non ti abbia stregata con qualche trappola o costretta a giurare delle cose nell'antica lingua.»
«L'antica...»
Roran la interruppe. «Eragon! Fallo quando saremo all'accampamento. Non possiamo più restare qui.»
«No.» Eragon fece un brusco gesto con la mano. «Devo farlo adesso.» Con la fronte aggrottata, Roran si fece da parte e permise a Eragon di mettere le mani sulle spalle di Katrina. «Guardami negli occhi» le disse Eragon. La fanciulla annuì e obbedì.
Era la prima volta che Eragon aveva l'occasione di usare le formule che Oromis gli aveva insegnato per riconoscere l'opera di un altro mago, ed ebbe difficoltà a ricordare ogni singola parola letta sulle pergamene di Ellesméra. I suoi vuoti di memoria erano così gravi che in tre diverse occasioni dovette ricorrere a sinonimi per completare la formula.
A lungo Eragon fissò gli occhi splendenti di Katrina e mormorò frasi nell'antica lingua, esaminando di tanto in tanto - col permesso della ragazza - uno dei suoi ricordi per scoprire se qualcuno li aveva alterati. Fu più delicato che poté, al contrario dei Gemelli, che gli avevano frugato nella mente senza tante cerimonie il giorno stesso che era arrivato nel Farthen Dûr.
Roran vigilava, camminando avanti e indietro davanti alla porta aperta. A ogni istante la sua agitazione cresceva: si rigirava il martello fra le mani, battendo la testa dell'arnese contro la coscia, come se tenesse il tempo di un brano musicale.
Alla fine Eragon liberò Katrina. «Fatto.»
«Cos'hai trovato?» chiese lei con un filo di voce. Si strinse le braccia intorno al corpo, la fronte solcata da rughe di apprensione, mentre attendeva il verdetto. Il silenzio riempì la cella mentre Roran si fermava davanti alla soglia.
«Niente, se non i tuoi pensieri. Sei libera da qualsiasi incantesimo.»
«Ma certo che è libera» grugnì Roran, e la prese di nuovo fra le braccia.
Insieme, i tre uscirono dalla cella. «Brisingr, iet tauthr» disse Eragon, facendo un cenno al fuoco fatuo che ancora fluttuava sotto la volta del corridoio. Al suo comando, il globo lucente gli sfrecciò sopra la testa, dove rimase a galleggiare come un turacciolo fra le onde.
Eragon li guidò sulla via del ritorno, attraverso il labirinto di gallerie, verso la grotta dov'erano atterrati. Arrancando sulla roccia viscida, vigilava nel timore di un attacco del Ra'zac superstite e nel contempo erigeva difese per proteggere Katrina. Alle sue spalle, sentiva lei e Roran scambiarsi una serie di frasi interrotte. «Ti amo... Horst e gli altri sono salvi... Sempre... Per te... Sì... Sì... Sì... Sì.» La fiducia e l'affetto che li univano erano così profondi che Eragon si sentì pervadere da una dolorosa fitta di struggimento.
Quando furono a una decina di iarde dalla caverna principale, ed era ormai possibile vedere grazie alla fievole luce che ne scaturiva, Eragon spense il fuoco fatuo. Dopo appena qualche passo, Katrina rallentò, si appiattì contro la parete della galleria e si coprì il viso. «Non posso. C'è troppa luce. Mi fa male agli occhi.»
Roran si affrettò a pararsi davanti a lei, proteggendola con la sua ombra. «Quand'è stata l'ultima volta che sei stata all'aperto?»
«Non lo so...» Una traccia di panico s'insinuò nella sua voce. «Non lo so! Mai, da quando mi hanno portata qui. Roran, diventerò cieca?» La fanciulla tirò su col naso e cominciò a piangere.
Le sue lacrime sorpresero Eragon. La ricordava come una donna di grande forza e coraggio. D'altro canto aveva passato molte settimane rinchiusa al buio, senza sapere che cosa la aspettava. Fossi stato in lei, anch'io sarei crollato.
«No, stai bene. Hai solo bisogno di riabituarti alla luce del sole.» Roran le accarezzò i capelli. «Andiamo, non abbatterti. Andrà tutto bene... Sei al sicuro, adesso. Al sicuro, Katrina. Mi senti?»
«Sì.»
Pur detestando l'idea di sciupare una delle tuniche che gli avevano donato gli elfi, Eragon strappò una striscia di tessuto dall'orlo del proprio indumento. La porse a Katrina e disse: «Legatela sugli occhi. Attraverso la stoffa riuscirai a vedere abbastanza da non rischiare di cadere o urtare qualcosa.»
Lei lo ringraziò e si legò la benda sugli occhi.
Ripresero a camminare, e pochi istanti dopo il trio emerse nella caverna inondata di sole e di sangue - più odorosa di prima per i vapori tossici che emanavano dal cadavere del Lethrblaka - proprio mentre Saphira sbucava dall'arco ogivale sulla parete opposta. Nel vederla, Katrina trasalì e si strinse a Roran, affondandogli le dita nella carne del braccio.
Eragon disse: «Katrina, permetti che ti presenti Saphira. Io sono il suo Cavaliere. Ti capisce se le parli.»
«È un onore, o drago» riuscì a dire Katrina, poi piegò le ginocchia in un debole tentativo di riverenza.
Saphira ricambiò con un cenno della testa. Poi si rivolse a Eragon. Ho frugato nel nido dei Lethrblaka, ma non ho trovato altro che ossa, ossa e ancora ossa, comprese alcune che sapevano ancora di carne fresca. I Ra'zac devono aver mangiato gli schiavi la notte scorsa.
Avrei voluto salvarli.
Lo so, ma non possiamo proteggere tutti in questa guerra.
Indicando la dragonessa, Eragon disse agli altri: «Coraggio, salitele in groppa. Io vi raggiungo fra un istante.»
Katrina esitò, poi guardò Roran, che annuì e mormorò: «Va tutto bene. È stata Saphira a portarci qui.» La coppia aggirò il cadavere del Lethrblaka per salire in groppa a Saphira, che si era appiattita sul ventre per facilitare loro il compito. Intrecciando le dita a formare un appoggio, Roran sollevò Katrina, che s'inerpicò sulla zampa di Saphira. Da lì, usò i cappi delle cinghie della sella come i pioli di una scaletta e arrivò sulle spalle della dragonessa, dove sedette a cavalcioni. Come una capra di montagna che balza da una roccia all'altra, Roran fece lo stesso percorso.
Eragon si avvicinò per esaminare Saphira, valutando la gravità delle ferite: unghiate, colpi di becco, tagli, lacerazioni e lividi. Oltre a quello che vedeva, si affidò a ciò che la dragonessa sentiva.
Per amor del cielo, disse Saphira, risparmia le tue attenzioni per quando saremo fuori pericolo. Non sto sanguinando a morte.
Non è del tutto vero, e lo sai. Hai un'emorragia interna. Se non la fermo adesso, rischi di avere complicazioni che non posso guarire, e allora non torneremmo mai dai Varden. Non discutere; io non cambio idea, e non mi ci vorrà nemmeno un minuto.
Alla prova dei fatti, Eragon impiegò parecchi minuti per restituire a Saphira la piena salute. Le ferite erano così gravi che per formulare tutti gli incantesimi necessari fu costretto a svuotare di energia la cintura di Beloth il Savio e perfino a ricorrere alle immense riserve di forza di Saphira. Ogni volta che si spostava da una ferita più grande a una più piccola, la dragonessa protestava, gli diceva che era uno sciocco e lo pregava di lasciarla in pace, ma lui ignorò le sue lamentele.
Alla fine, Eragon si accasciò a terra, esausto per il grande dispendio di energie necessario agli incantesimi curativi e la fatica del combattimento. Indicando i punti dove il Lethrblaka l'aveva trafitta col becco, disse: Dovresti farti controllare da Arya o da qualche altro mago per quelli. Ho fatto del mio meglio, ma potrei aver tralasciato qualcosa.
Apprezzo la tua premura per la mia salute, replicò lei, ma questo non è il luogo per stucchevoli dimostrazioni d'affetto. Una volta per tutte, andiamo!
D'accordo. È ora di partire. Indietreggiando un passo dopo l'altro, Eragon si allontanò da Saphira verso la galleria alle sue spalle.
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