Volodyk - Paolini3-Brisingr

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«Andiamo!» lo chiamò Roran. «Sbrigati!»

Eragon! esclamò Saphira.

Eragon scosse la testa. «No. Io resto qui.»

«Tu...» cominciò a dire Roran, ma fu interrotto dal feroce ringhio di Saphira. La dragonessa frustò con la coda la parete della grotta e artigliò il terreno con le zampe, tanto che ossa e pietra parvero gridare, percorsi da un dolore straziante.

«Ascoltate!» gridò Eragon. «Uno dei Ra'zac è ancora vivo. E pensate a ciò che potrebbe esserci d'altro nell'Helgrind: pergamene, pozioni, informazioni sulle attività dell'Impero... cose che possono rivelarsi molto utili. I Ra'zac potrebbero persino avere delle uova nascoste qui da qualche parte. Se così fosse, devo distruggerle prima che Galbatorix se ne impossessi.»

Poi, rivolto soltanto a Saphira, aggiunse: Non posso uccidere Sloan, né posso permettere che Roran o Katrina lo vedano; non posso lasciarlo morire di fame nella sua cella o permettere che gli uomini di Galbatorix lo catturino di nuovo. Mi dispiace, ma devo occuparmi di lui da solo.

«Come farai a uscire dai confini dell'Impero?» chiese Roran.

«Correrò. Sono veloce come un elfo ormai, lo sai.»

La punta della coda di Saphira ebbe un fremito, ma fu l'unico avvertimento che Eragon ricevette prima che la dragonessa si avventasse su di lui, con una zampa tesa. Eragon s'infilò nel tunnel una frazione di secondo prima che la zampa di Saphira si abbattesse sul punto dov'era fermo.

Saphira si arrestò con uno scivolone davanti all'imbocco della galleria e ruggì, delusa di non poterlo seguire nell'angusto passaggio. La sua mole sbarrava quasi tutta la luce. La roccia tremò intorno a Eragon quando la dragonessa cominciò a sgretolare l'ingresso con le unghie e con i denti, staccando grossi blocchi di pietra. I suoi ringhi ferali e la vista del suo muso, irto di zanne lunghe quanto un avambraccio umano, provocarono a Eragon un brivido di paura. Capì come si deve sentire un coniglio acquattato nel suo rifugio con un lupo che cerca di stanarlo.

«Ganga!» gridò.

No! Saphira posò il muso a terra ed emise un lugubre lamento, gli occhi sgranati e colmi di disperazione.

«Ganga! Ti voglio bene, Saphira, ma dovete andare.»

La dragonessa si ritrasse di qualche iarda dalla galleria e tirò su col naso, miagolando come una gatta. Piccolo mio...

Eragon odiava renderla infelice, e odiava doverla mandare via: era come separarsi da una parte di sé. Il dolore di Saphira che fluiva attraverso il loro legame mentale, unito alla sua stessa angoscia, quasi lo paralizzò. In qualche modo trovò la fermezza per dire: «Ganga! Non tornare indietro a prendermi e non mandare nessuno a cercarmi. Starò bene. Ganga! Ganga!»

Saphira ululò di frustrazione e poi, a malincuore, si avvicinò all'imboccatura della grotta. In sella, Roran disse: «Eragon, andiamo! Non fare lo stupido. Sei troppo importante per rischiare...»

Un vortice di movimento e rumore inghiottì il resto della frase mentre Saphira si lanciava fuori della caverna. Nel cielo limpido le sue squame brillarono come una miriade di diamanti azzurri. Eragon pensò che era magnifica: fiera, nobile, più bella di qualsiasi altra creatura vivente. Nessun cervo o leone poteva competere con la maestà di un drago in volo. Lei disse: Una settimana. È il massimo che ti concedo, Eragon. Poi tornerò a cercarti, dovessi combattere contro Castigo, Shruikan e mille stregoni insieme.

Eragon rimase a guardarla finché non scomparve dalla sua visuale e lui non poté più restarle accanto con la mente. Poi, col cuore pesante come piombo, raddrizzò le spalle, volse la schiena al sole e a tutte le cose vive e luminose, e ricominciò a scendere nei tunnel delle tenebre.

CAVALIERE E RA'ZAC

Eragon sedeva immerso nel bagliore freddo del suo fuoco fatuo cremisi, nel corridoio fiancheggiato di celle vicino al cuore dell'Helgrind. Teneva il bastone di traverso sulle gambe.

La sua voce riverberava sulla roccia mentre ripeteva incessantemente una frase nell'antica lingua. Non era magia, ma un messaggio per il Ra'zac superstite. La sostanza era questa: «Vieni, o mangiatore di carne umana, affinché possiamo concludere questa nostra battaglia. Tu sei ferito, e io sono stanco. I tuoi compagni sono morti, e io sono solo. Siamo pari. Ti prometto che non userò la magia contro di te, né ti ferirò o ti intrappolerò con incantesimi già evocati. Vieni, o mangiatore di carne umana, affinché possiamo concludere questa nostra battaglia...»

Il tempo trascorso a parlare gli parve infinito: un vuoto temporale in un'atmosfera spettrale, inalterato per un'eternità di parole ripetute che per lui non avevano più significato né ordine. D'un tratto i suoi pensieri tacquero, ed Eragon si sentì pervadere da una strana calma.

Rimase con la bocca aperta, poi la chiuse e rimase in vigile attesa.

A trenta piedi da lui c'era il Ra'zac. Sangue gli gocciolava dall'orlo del mantello logoro. «Il mio padrone non desssidera che ti uccida» sibilò.

«Ma questo non ha più importanza per te, adesso.»

«No. Ssse cado sssotto i tuoi colpi, che sssia Galbatorix a occuparsssi di te. Lui ha più cuori di te.»

Eragon si mise a ridere. «Cuori? Io sono il campione del popolo, non lui.»

«Ssstupido ragazzo.» Il Ra'zac inclinò la testa di lato, guardando oltre, verso il cadavere dell'altro Ra'zac riverso sul pavimento del tunnel. «Lei era la mia compagna di covata. Sssei diventato più forte dalla prima volta che ci sssiamo incontrati, Ammazzassspettri.»

«Se così non fosse, sarei morto.»

«Sssei disssposto a fare un patto con me, Ammazzassspettri?» «Che genere di patto?»

«Io sssono l'ultimo della mia razza, Ammazzassspettri. Sssiamo antichi e non voglio esssere dimenticato. Nelle tue ssstorie e nelle tue canzoni, ricorderai ai tuoi compagni umani il terrore che issspiravamo nella tua razza?... Ricordaci come patirai»

«Perché dovrei fare questo per te?»

Abbassando il becco sull'esile torace, il Ra'zac ridacchiò e cinguettò qualche istante. «Perché» disse «ti rivelerò un sssegreto, sssì, lo farò.»

«Allora parla.»

«Dammi prima la tua parola, potresssti imbrogliarmi.»

«No. Prima parla tu, poi deciderò se stringere il patto oppure no.»

Passò più di un minuto senza che nessuno dei due si muovesse, anche se Eragon teneva i muscoli tesi, pronto a un attacco a sorpresa. Dopo un'altra serie di ticchettii col becco, il Ra'zac disse: «Ha quasssi ssscoperto il nome.»

«Chi?»

«Galbatorix.»

«Il nome di cosa?»

Il Ra'zac sibilò di frustrazione. «Non possso dirtelo! Il nome! Il vero nome!»

«Mi devi dire di più.»

«Non possso.»

«Allora niente patto.»

«Che tu sssia maledetto, Cavaliere! Che tu non posssa mai trovare tana o rifugio o pace della mente in quesssta tua terra. Che tu posssa lasciare Alagaësssia e non tornare mai più!»

Eragon si sentì rizzare i peli sulla nuca al freddo tocco della paura. Nella sua mente echeggiarono le parole di Angela l'erborista, quando aveva lanciato gli ossi di drago davanti a lui e gli aveva letto il futuro e predetto lo stesso destino.

Una lunga scia di sangue separava Eragon dal suo nemico, che scostò il lembo del mantello fradicio per rivelare un arco con la freccia già incoccata. Con un gesto fulmineo sollevò l'arma e lasciò partire il dardo, mirando al petto di Eragon.

Eragon deviò la freccia con il bastone.

Come se il tentativo non fosse stato altro che un preliminare imposto dall'etichetta prima di passare al vero confronto, il Ra'zac si chinò a posare l'arco per terra, poi raddrizzò la gobba, e con deliberata lentezza sguainò la spada a lamina da sotto il mantello. Nel frattempo Eragon si era alzato per assumere una posizione frontale, con i pugni stretti intorno al bastone.

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