Iain Banks - Canto di pietra

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Canto di pietra: краткое содержание, описание и аннотация

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In un mondo senza tempo e senza nome, devastato da una guerra che ha rivelato il fondo barbarico della natura umana, tra cumuli di macerie e colonne di profughi in fuga, si erge un antico castello di pietra. Tra le sue austere mura vive, assieme alla sorella-amante Morgan, Abel, l’ultimo discendente di una famiglia aristocratica. Per i due giovani, quel castello sarebbe un rifugio ideale, se un giorno, a turbare la loro idilliaca «intimità», non sopraggiungesse una banda di soldati irregolari, guidati da un oscuro personaggio femminile. Stregati dal fascino magnetico e perverso di quella donna senza volto e senza anima, Abel e Morgan si trasformano ben presto nelle pedine di un sordido gioco a tre, mentre l’antica dimora diviene teatro di inaudite violenze, eccessi e distruzioni, che porteranno in un crescendo di tensione e di suspense alla catastrofe finale.

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E quanto innocente, quanto bella appari tu, innalzata sopra la dissolutezza alcolica inghiottita dai piani inferiori, languida e composta in una pace comune e silenziosa, sicura nella tua morbida cittadella di sonno. Avanzo con cura ai piedi del letto, stando bene attento ai punti in cui il pavimento cigola, abbassandomi per evitare che la mia ombra proiettata dalle candele cada sul viso serenamente addormentato della luogotenente.

Quanto desidero unirmi a voi due, scivolare in silenzio fra voi e condividere il vostro calore, essere accettato da lei e insieme da te.

Ma so che non è possibile. Nessun atto della luogotenente fa pensare che i suoi gusti possano accettare una simile inclusione, o che lei possa cedere a ciò che desidero io. Devo contentarmi di essere stato testimone, di aver visto quanto doveva essere visto e sarà serbato con cura nella mia memoria. È sufficiente. Non ho idea di cosa potrebbe comportare quanto ho visto, del mutamento di situazione e fedeltà che potrà suscitare in seguito, ma da molto tempo abbiamo convenuto che cose come queste devono essere trattate con ragionevole passione, e di correre questo rischio. Solo il margine che ci siamo concessi ci permette di andare alla deriva insieme, solo i legami più allentati ci terranno uniti. La nostra ampia licenza è stata la garanzia di una rilassata affiliazione, e ci ha mantenuto nelle nostre orbite irregolari, mentre una minor portata di reciproco consenso ci avrebbe ben presto separati per sempre.

È stato egoistico, da parte mia, intromettermi in questo modo. Continuate a dormire, gentili signore. Perdonatemi per aver tratto questa minima quantità di piacere dalle conseguenze del vostro. Uscirò di scena, vi lascerò in pace e forse troverò un letto da qualche parte, di sopra.

Mi muovo con la cautela necessaria attorno al letto, badando di nuovo a dove metto i piedi, di nuovo piegandomi sotto la linea di luce che congiunge lo stoppino delle candele agli occhi chiusi della nostra luogotenente.

Un’asse scricchiola sotto di me, dove prima non si era mai mosso nulla. Certo, capisco all’improvviso; sono vicino al tappeto che copre il buco lasciato dalla granata. La luogotenente si muove nel sonno. Faccio un lungo passo per togliermi dall’asse danneggiata, che manda uno schiocco improvviso tornando a posto. Sento un rumore dietro di me, sul letto, e comincio a voltarmi, sbigottito, perdendo l’equilibrio, barcollo e metto il piede sul bordo del tappeto, pensando che sia centrato sul buco.

Ma qualcosa nel castello mi tradisce. Mentre guardo all’indietro, e vedo la tua testa che comincia a levarsi e la luogotenente che si volta di scatto, torcendo le coperte attorno a sé come un bozzolo filato — mentre i suoi occhi si aprono lentamente e la sua mano si protende verso il comodino — il mio piede finisce nel buco malchiuso sotto il tappeto. La gamba scompare di sotto, trascinandomi con sé; l’altro piede scivola sul pavimento di legno mentre comincio a sprofondare. Le mie braccia si distendono, e le mie mani tentano di stringersi a…

La pistola, dimenticata nella mia presa bloccata dall’ustione, emette un rumore assordante. Liberata come un uccello artigliato per aggrapparsi alla salvezza del trespolo marmoreo del camino, la mia mano, con le dita che si contraggono dolorosamente, si stringe invece al grilletto della pistola. Esplode uno sparo, e rimbomba nella stanza con una forza assordante, e una lancia di fuoco sgorga dalla bocca, coprendo la luce delicata delle candele e delle braci, accecandomi. Ho la gamba incastrata nel buco; mi volto mentre cado, e la mia testa colpisce la griglia metallica al bordo del focolare; la pistola sta ancora sparando, posseduta da una sua vita sussultante, e il suo folle abbaiare mi riempie la mano e le orecchie. Il marmo si crepa, si disperdono schegge, grida e colpi di rimbalzo echeggiano da qualche parte nel gorgo del rumore. Rotolo sulla schiena, confuso, mentre la pistola continua a saltarmi in mano. Anche mentre cado sul pavimento, con la gamba bloccata, preso come un animale in trappola, mi scopro a chiedermi come faccia la pistola a continuare a sparare, e solo oscuramente comincio a capire che, al contrario di tutte le pistole che abbia mai usato, questa spara finché si tiene premuto il grilletto. Dico alla mia mano di aprirsi, voglio che le mie dita lascino il grilletto, e intanto cerco di risollevarmi, di mettermi seduto.

Allora vedo la luogotenente, nuda e inginocchiata a gambe larghe sul letto, con una pistola tenuta a due mani e puntata contro di me. Apro la bocca per spiegare. Dietro — oltre il rosa del suo corpo agile e disteso — vedo te, rannicchiata, piegata in due, tremante, che ti stringi un braccio.

È sangue quello che c’è sulle lenzuola? Sono stato io che…?

La luogotenente spara prima che io riesca ad aprire la bocca, prima che possa spiegare, o chiedere, o protestare. Qualcosa mi colpisce sul lato della testa come un picchetto conficcato da un martello, facendomi ruotare, facendomi contorcere, facendomi girare gli occhi così da vedere le minuscole fiamme delle candele che roteano e lasciano una scia e creano un alone attorno a me, e le loro piccole vite tremolanti si trasformano in un intero popolo di candele.

Poi la luce si spegne del tutto mentre cado di nuovo all’indietro, colpendo le assi in un silenzio che svanisce.

Oscurità. Non più spari. Immobilità.

Mi sembra di non poter sentire nulla direttamente, eppure in qualche modo sono consapevole delle cose. Sono cosciente di un pianto, di grida, di voci che tranquillizzano, di cose che sbattono pesantemente e terribili ruggiti e rumori di tonfi e di passi. L’esistenza, la presenza di questi suoni mi viene in qualche modo segnalata, ma solo in quanto concetti, entità astratte. Non saprei dire chi piange, chi parla o cosa si dice o quali sono esattamente quei suoni e cosa significano.

Voglio aprire gli occhi ma non posso. C’è una tempesta in arrivo, penso. La pistola mi viene tolta dalla mano. Non fa troppo male. Qualcosa mi rimbomba nel fianco, nelle costole. Accade di nuovo. Mi ci vuole un momento, nell’oscurità che mi avvolge, per capire che vengo preso a calci. Comincia a far male. Il pianto, le grida, i colpi continuano. Sono gli alberi? Sento gli alberi che hanno preso a muoversi nella brezza? Un altro calcio, e questa volta fa più male.

«…qui!» dice una voce, distintamente.

Alcune mani si stringono attorno a me, mi sollevano bruscamente. La gamba viene districata dal buco nel pavimento. Poi sono di nuovo messo giù, e atterro su qualcosa di morbido, credo.

Sono sulla schiena. No, bocconi.

Adesso sento rumori confusi. Scricchiolano assi, sbattono porte, arrivano zoppicando alcuni piedi; fruscio di vestiti, sdrucciolii; lontani passi di corsa, con un ritmo spezzato, tutti diretti qui; urla confuse, preoccupate, sollevate e irose; frenetici scambi di parole. Credo che soffriremo tutti quando arriverà la tempesta. La mia testa viene sollevata, e poi lasciata cadere di nuovo. Sento la tempesta che si raccoglie sulle montagne. Strano torpore. Altre parole. Corone di nubi nere che si ammassano. Respira ancora. Una certa oscurità in cima. Barry. Bara. Sbarazzarsi.

Sei tu che piangi, credo. Parole di conforto della luogotenente. Sto ancora cercando di parlare perché ci devono essere cose da dire. Credo che i miei occhi siano aperti, ma non perché credo di vedere qualcosa. Credo di poter vedere. Di certo mi piacerebbe. Consapevole di altre persone. La stanza sembra molto rossa, come la osservassi attraverso una nebbia di sangue. Tu sei sul letto, rannicchiata, abbracciata: accudita. Gesso sul pavimento, sangue scuro sul letto. La luogotenente, seduta sul letto, si sta infilando uno stivale. Un leggero sibilo, qualche vecchio arnese alimentato a gas. C’è un tappeto sotto di me, che si inzuppa lentamente. Voce che riconosco: quella di un domestico, che grida, implora, nella stanza accanto, poi una frettolosa discussione, ordini e altre grida, la voce del domestico che protesta, si calma, se ne va, scompare. Ma la tempesta continua ad avvicinarsi; romba contro le mura cave del castello.

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