Iain Banks - Canto di pietra

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Canto di pietra: краткое содержание, описание и аннотация

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In un mondo senza tempo e senza nome, devastato da una guerra che ha rivelato il fondo barbarico della natura umana, tra cumuli di macerie e colonne di profughi in fuga, si erge un antico castello di pietra. Tra le sue austere mura vive, assieme alla sorella-amante Morgan, Abel, l’ultimo discendente di una famiglia aristocratica. Per i due giovani, quel castello sarebbe un rifugio ideale, se un giorno, a turbare la loro idilliaca «intimità», non sopraggiungesse una banda di soldati irregolari, guidati da un oscuro personaggio femminile. Stregati dal fascino magnetico e perverso di quella donna senza volto e senza anima, Abel e Morgan si trasformano ben presto nelle pedine di un sordido gioco a tre, mentre l’antica dimora diviene teatro di inaudite violenze, eccessi e distruzioni, che porteranno in un crescendo di tensione e di suspense alla catastrofe finale.

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Alla porta riuscii a liberarmi e corsi indietro; la bambinaia tentò di inseguirmi e io saltai sul letto e lo attraversai a grandi passi, disperdendo i pezzi di porcellana che avevi raccolto tu. Raggiunsi papà: ora volevo difenderlo dalla furia della mamma.

Lui mi spinse via. Mi fermai, confuso, in mezzo a loro due, fissando papà mentre lui mi puntava il dito contro e gridava qualcosa. Ricordo che non capii, e pensai: Perché non mi vuole? Cosa c’era che non andava in me? Perché accettava solo te?

La mamma strillava il suo rifiuto; la bambinaia mi afferrò con entrambe le mani e mi tenne sotto un braccio, appoggiato su un fianco; all’inizio mi dibattei appena, ancora sconvolto. Presso la porta mi scossi e mi liberai ancora una volta e mi diressi verso papà. Questa volta lui imprecò, mi prese per la collottola e mi spinse fuori dalla porta, passando accanto alla bambinaia piangente che si scusava. Mi scagliò lontano nell’atrio. Atterrai ai tuoi piedi. La bambinaia uscì di corsa dalla camera da letto e la porta sbatté alle sue spalle; si sentì scattare la serratura.

Tu allungasti la mano per asciugare un po’ del sangue di papà che mi era rimasto sul collo.

Quel giorno stesso lui ti portò via con sé, e per la prima e ultima volta colpì sua moglie che cercava di trattenerti. La mamma fu lasciata in lacrime sui ciottoli del cortile mentre lui conduceva te, tranquilla e remissiva, lungo il passaggio sotto il corpo di guardia e poi oltre il ponte fino alla macchina che lo attendeva. Io mi inginocchiai accanto alla mamma, condividendo le sue lacrime, e osservando la vostra partenza.

Ti voltasti solo una volta, mi guardasti negli occhi, sorridesti e salutasti con la mano. Non ricordo che tu abbia mai avuto un’aria più indifferente. Le mie lacrime sembrarono asciugarsi all’istante, e mi ritrovai ad agitare debolmente la mano, verso la tua schiena, mentre saltellavi via.

Mi avvio sulla scalinata centrale, dove il gesso, simile a una purissima nevicata, ricopre una figura addormentata, che si muove, bofonchia nel sonno e disturba appena la polvere. Qualcosa mi schiocca sonoramente sotto i piedi mentre passo accanto al soldato addormentato, e dalla forma raggomitolata esce un insulto ubriaco e incoerente. Resto immobile, e il soldato si riaddormenta, e il mormorio si smorza nel silenzio.

Mi viene in mente di lasciare qui la pistola che pende dal mio braccio destro, ma la mano dolorante e ustionata ormai si è abituata all’arma; serrata attorno alla sua freddezza, la carne bruciata non si lamenta, a parte un dolore sordo e distante; costringerla a muoversi adesso, staccare la pelle gemente dal calcio della pistola e flettere quella superficie segnata vorrebbe dire suscitare altro dolore. È meglio, meno penoso, lasciarla dov’è. E comunque, chissà, magari la pistola può tornarmi utile.

Salgo i gradini curvi fino al caposcala del piano delle stanze da letto, dove le ringhiere della balaustra, inclinate e spezzate, sporgono verso la tromba delle scale come dita che artigliano il vuoto. I miei piedi, che preferiscono il limite interno dei gradini, strusciano polvere di gesso a ogni passo. Il corridoio trabocca d’ombre, una buia foresta di colonne e pilastri pallidi, ampie chiazze di ombre d’inchiostro e raggi obliqui della luna; un sentiero invernale fra i detriti, fiancheggiato di oscure pozze che hanno lo stesso colore del retro degli specchi antichi. Sento lontani grugniti, un letto o un’asse scricchiolante, qualcuno che tossisce. L’aria puzza di fumo e sudore e alcol. Sul pavimento, la corrente di una finestra rotta spazza via un turbine di pagine strappate da libri. Provo a seguirle.

La porta della mia camera è socchiusa; all’interno l’aria è turbata dal russare di vari uomini. Nell’entrata che dà sulla tua camera, mia cara — e nella cornice di una finestra proiettata dalla luce della luna — giace un’altra forma assopita, arrotolata in un sacco a pelo, con un elmetto posato accanto alla testa e un fucile in equilibrio contro uno stipite della porta. Mi avvicino al soldato, posando con cura i piedi per evitare di far rumore schiacciando fogli e dischi rotti o un’asse danneggiata che scricchiola sempre. Mi sporgo verso di lui e colgo una traccia di quella che, alla luce della luna, sembra una ciocca di capelli rossi. È Karma, allora, il nostro mitragliere e fedele guardiano del sonno della luogotenente. Credo di poter girare la serratura della porta, ma se la aprissi farei cadere il fucile. Potrei sollevarlo, ma la cinghia è avvolta intorno al polso del guardiano, subito sotto il pugno serrato come quello di un bambino, accanto alla guancia.

Mi ritiro e punto sulla porta aperta del mio appartamento. L’oscurità è riempita dal rumore raschiante di un ubriaco che si dibatte nel sonno. C’è poca luce: il camino è spento, le tende sono tirate e comunque la stanza non è esposta alla luce della luna. Faccio scivolare con cura i piedi. So dove sarebbero tutti gli oggetti di questa stanza in condizioni normali, ma quali rifiuti siano stati abbandonati, quali vestiti lasciati cadere e quali mobili spostati da chiunque dorma qui adesso non lo posso indovinare né vedere.

Striscio attorno ai piedi del letto e avanzo a tastoni oltre la cassapanca, e la mia mano sensibilizzata dal fuoco sfiora qualcosa che sembra biancheria femminile e un bicchiere posato accanto. Attraverso la stanza fino al muro accanto alla porta che dà sulla tua camera. Le scarpe incontrano vetri rotti, uno strato crepitante sulla superficie del tappeto. La vetrina accanto al muro è stata aperta; la mia mano in avanscoperta tocca lo sportello di legno e vetro e lo chiude con un morbido scatto e con il rumore stridente di qualcosa che gratta sul vetro. Mi immobilizzo. Il russare alle mie spalle ha un’esitazione e cambia tonalità, ma continua virilmente. Avanzo a tentoni fino alla porta.

Il passe-partout di Arthur fa scattare con dolcezza la serratura. Ricordo che ci sono chiavistelli su entrambi i lati della porta. Allungo la mano e scopro che quello da questa parte non è chiuso. Ho un’esitazione, chiedendomi cosa potrà mai succedere quando girerò questa maniglia, a cosa potrà condurre l’apertura di questa porta.

La maniglia si abbassa con facilità nella mia mano dolorante, e con una minima pressione la porta, robusta e pesante, comincia ad aprirsi.

Entro nella stanza, in un malcerto spazio ambrato pieno di ombre. La porta si chiude con uno scatto inavvertibile.

Finalmente, mia cara. Trovo te e la nostra luogotenente.

La stanza è illuminata da larghi monconi di candela e dai resti del fuoco nel camino, con i ciocchi ridotti a incandescenti caverne rosso scuro in un paesaggio grigio e nero, privo di fumo e di fiamma. Su ogni candela c’è un bagliore a forma di lacrima, immobile come vetro soffiato. Tremano appena alla debole corrente prodotta dal mio ingresso, una dopo l’altra: prima la candela sul lato più vicino del camino, poi quella su una cassapanca, poi quella all’estremità lontana del fuoco, infine la candela sul comodino, su cui è posata una pistola automatica di metallo nero e lucente. La dolce marea delle ombre lambisce la pelle della luogotenente e la tua, come la luce che accarezza le forme levigate della vostra carne condivisa.

Il corpo della luogotenente, di cui è visibile una metà in verticale, è più snello di quello che mi sarei aspettato. In questa luce, la sua pelle sembra quella di un bambino: morbida e rosata. Siete sdraiate insieme, nude, con le membra intrecciate, circondate da un caos indolente di cuscini, lenzuola, vestiti; la tua guancia è sulla sua spalla, la sua gamba gettata sul tuo fianco, una sua mano è posata con leggerezza sul tuo seno. Come sembra vulnerabile, insieme a te, mia cara, la nostra luogotenente, come è muto l’orgoglio del comando, quanto poco da luogotenente è la sua nuda accessibilità, quanto disposta al sonno la spalla che si adatta alla guancia, la nera capigliatura arruffata, la posa languida del braccio gettato all’infuori, la curva succosa della natica e la morbida mano a coppa: tutte le sue membra fluttuano sulle gonfie lenzuola di seta come relitti a stento collegati in un mare magico e calmo.

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