Qualcosa cede. I polsi si stanno liberando. Una mano scivola fuori, umida e viscida e scorticata. Sputo la stoffa lurida che mi è rimasta in bocca. Sciolgo il cappio rimasto sull’altro polso, poi mi distendo, con le braccia e la schiena che protestano, e mi levo il peso dell’elmo dalla testa. Lo lascio cadere nell’acqua accanto a me, poi cerco di mettermi dritto, facendo forza con le mani sull’orlo del secchio. Senza successo. La schiena mi fa male come se fosse stata appena ustionata. Allungo le mani verso la catena del secchio e la tiro verso di me finché, un tratto alla volta, la corda finisce e si tende. Mi appendo, tiro e finalmente riesco a liberare la schiena e le caviglie incastrate.
L’acqua arriva solo a metà polpaccio. Cerco di stare in piedi ma non ci riesco: le gambe si piegano e devo stendere entrambe le braccia per sostenermi, appoggiandomi precariamente all’indietro. Alla fine ribalto il secchio e mi ci siedo sopra, in attesa, tremante, che mi ritorni una qualche sensibilità alle gambe.
Perdo di nuovo i sensi, e mi risveglio nell’acqua fetida e ghiacciata, dibattendomi e sputando. Mi inginocchio nella feccia gelida e cerco a tastoni il secchio. Torno a sedermici sopra.
Non so quanto tempo sia passato. Sto seduto con la testa fra le mani, cercando di soffiare un po’ di vita nel mio corpo; ogni tanto mi metto a tremare. A un certo punto il rumore di fondo cambia, finisce qualcosa, e quando alzo gli occhi, dopo aver percepito una nuova alterazione, è notte fonda; è scomparso il bordo di luce elettrica riflessa dalla roccia, e sopra di me non c’è più alcun alone luminoso. Abbasso la testa, poi provo ad alzarmi. Il formicolio mi assale le gambe, dall’inguine all’alluce. Riesco a stare in piedi, con lo sguardo puntato nell’oscurità.
Passa un po’ di tempo prima che mi senta pronto per un tentativo. Non so quanto. Non viene nessun altro a liberarsi nella mia segreta o a ridere di me, anzi, lassù in alto tutto sembra perfettamente silenzioso e buio.
Afferro di nuovo la corda del secchio, aggrappandomici con tutto il mio peso per saggiarla. In cima qualcosa cigola, e la corda cede appena. Sembra poco sicura. Non sono certo di avere la forza di risalire il pozzo. Forse dovrei starmene qui seduto sul secchio ad aspettare il mattino. Alla fine avranno compassione di me, o semplicemente si ricorderanno di me, e forse caleranno una corda per tirarmi su. Oppure no: magari mi lasceranno qui finché muoio, o mi getteranno addosso pietre e rocce fino a seppellirmi. Posso confidare nella compassione della luogotenente? O nel tuo amore? Non posso averne la certezza.
Poi mi appoggio all’indietro, con le scapole contro il muro, e spingo avanti i piedi nell’acqua, oltre il secchio e l’elmo sommerso, fino al muro più lontano, curvo e stretto. Mi tendo e mi tiro, sollevandomi. La nuca e la spina dorsale fanno a gara a chi protesta più dolorosamente, ma le ignoro entrambe. La catena congiunta alla corda si arrotola a spirale sul mio grembo. Adesso i piedi sono mezzo metro sopra il livello dell’acqua; la testa è un metro sopra di loro. Faccio una pausa, incuneato nella mia posizione. Ero troppo piccolo per fare così, la prima volta. In questo modo, però, posso fermarmi durante la salita nel pozzo, facendo riposare le braccia se diventano troppo deboli per lo sforzo.
Provo a partire, tirando la corda; ho il respiro affannato e il cuore batte sempre più forte a mano a mano che salgo. Le braccia cominciano a tremare, vibrare e bruciare per la fatica; mi fermo a prendere fiato, lasciandole penzolare, facendo smorfie di dolore quando la nuca e la schiena incontrano rocce ruvide e sporgenti. Anche le gambe cominciano a tremare. Riprendo a salire, a un incerto ritmo d’ambio: una mano stringe la corda, tirando, poi sale un piede, poi l’altra mano, poi l’altro piede.
Scivolo quando sono ormai vicino all’imboccatura. Una mano, stanca, trova qualcosa di viscido su quel filamento e perdo la presa; cado per un tratto, mi aggrappo d’istinto con entrambe le mani alla corda e di sopra l’argano stride con forza. Riesco a far presa e mi fermo, con le gambe penzoloni. Per l’attrito, i palmi e le dita bruciano come carbonizzati, facendomi gemere con la fronte appoggiata alla corda, mentre stelle luminose vorticano nel mio campo visivo. Ondeggio come un impiccato, con i piedi che urtano contro le pareti del pozzo. Sulle guance mi scorrono le lacrime. Spingo i piedi all’infuori per fare presa e incunearmi. Potrei lasciarmi cadere, rinunciare, fermare il dolore che parte dalle mani e mi inonda semplicemente arrendendomi all’attrazione seduttiva della terra; morte o incoscienza, non ha molta importanza. Ma qualcosa in me non cederà e sa che cos’è quell’unione di mani bruciate sulla corda fredda e consunta: una miccia.
Muovere le dita, costringendole ad aprirsi e chiudersi su quella superficie ruvida, mi fa boccheggiare. Piango per il dolore e la fatica; le braccia tremano così forte che sono certo che si piegheranno e cederanno al prossimo sforzo. Decido di fermarmi a riposare, punto le spalle contro la parete e quasi urlo quando la testa cade all’indietro, priva d’appoggio, e urta contro una pietra orizzontale.
Ho raggiunto la superficie. Sento col naso e le orecchie la differenza e annuso l’aria più fresca.
Tiro fuori i piedi, poi ruoto su un fianco, stringendo il muro di roccia, e per poco non ricado nel pozzo quando perdo l’appiglio su una pietra scivolosa. Invece cado da questa parte del cerchio di pietra e mi ritrovo sui ciottoli del cortile, accanto al cannone della luogotenente, che giganteggia nell’oscurità pietrosa del cortile. Poso le mani sui ciottoli freddi, e lascio che il castello rinfreschi come un unguento la pelle ustionata dalla corda.
Il castello non è del tutto buio: le luci elettriche sono spente ma tremolano alcune feudali torce da giardino. Regna un frammentario silenzio: sento un lontano colpo di tosse e un grido, forse umano. Mi rimetto in piedi, in attesa, respirando con forza, ondeggiando un po’. Il cielo notturno invia una pioggerella leggera e spruzza d’acqua il mio viso levato all’insù; alzo le mani verso la sua freschezza, come se mi arrendessi. La debole luce delle torce si riflette sulla mole metallica del cannone, mostrando la sua muta bocca puntata verso l’oscurità. Barcollo fino alla jeep più vicina, solo per sedermi. Mi porto le mani davanti alla faccia, e le piego nonostante il dolore.
Sedendomi, trovo una borsa infilata fra i due sedili, con qualcosa di duro all’interno. Infilo una mano, mordendomi le labbra per il dolore, e tiro fuori una pistola automatica, pesante, con uno splendore offuscato. La rigiro. È fredda e allevia il dolore della mano. La tengo stretta e mi allontano dalla jeep, raggiungendo la saracinesca chiusa che blocca il passaggio sotto il corpo di guardia. Oltre il breve tunnel c’è un barlume di torcia che illumina la balaustra spezzata del ponte sul fossato. Sbircio attraverso la griglia di ferro battuto.
Sento qualcuno che russa, quasi sotto di me, dall’altra parte della saracinesca. Faccio un salto all’indietro. Arrivano i suoni di qualcuno che si sveglia, si rigira, borbotta. Ho come l’impressione di un’oscurità che si muove, di gente che si alza per riempire lo spazio davanti a me. Poi uno strofinio, e un fiammifero che si accende. Mi riparo gli occhi, e attraverso la griglia metallica vedo prima una mano, poi un viso scuro, poi altri tre. Gli uomini dell’accampamento mi fissano attraverso il ferro battuto, le cui aperture tracciano un grafico di rassegnata preoccupazione sui loro volti tirati e sporchi.
«Chi è?» dico. Il fiammifero tremola. Non posso leggere nulla su quelle facce; sono forse spaventate, rassegnate, furiose? Non lo saprei dire. «Vi conosco?» chiedo loro. «Conosco qualcuno di voi? Chi siete? Cosa è successo? Che ora è?»
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