Iain Banks - Canto di pietra

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In un mondo senza tempo e senza nome, devastato da una guerra che ha rivelato il fondo barbarico della natura umana, tra cumuli di macerie e colonne di profughi in fuga, si erge un antico castello di pietra. Tra le sue austere mura vive, assieme alla sorella-amante Morgan, Abel, l’ultimo discendente di una famiglia aristocratica. Per i due giovani, quel castello sarebbe un rifugio ideale, se un giorno, a turbare la loro idilliaca «intimità», non sopraggiungesse una banda di soldati irregolari, guidati da un oscuro personaggio femminile. Stregati dal fascino magnetico e perverso di quella donna senza volto e senza anima, Abel e Morgan si trasformano ben presto nelle pedine di un sordido gioco a tre, mentre l’antica dimora diviene teatro di inaudite violenze, eccessi e distruzioni, che porteranno in un crescendo di tensione e di suspense alla catastrofe finale.

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L’impatto con il fondo è uno schianto stordente: picchio la testa all’indietro contro la parete, poi, di rimbalzo, avanti, e si innesca una linea di fuoco e di dolore che mi percorre la schiena e mi si conficca all’altezza del naso come una lancia.

Mi fermo, stordito, mentre l’acqua gorgoglia intorno a me.

QUATTORDICI

Sono oscuramente consapevole del dolore, del freddo e del sapore di metallo. Scorticato, stranito, senza nemmeno poter scuotere la testa, sono appollaiato sul mio piccolo trono di legno, in mezzo ai resti fangosi dell’acqua scomparsa da tempo, in equilibrio su una nascosta piattaforma di pietrisco che da un secolo o più soffoca il pozzo, ridotto ormai a un ornamento. Ho sempre in testa la corona di metallo e i miei vestiti strappati sono quelli di un umile lavoratore. L’acqua filtra attorno a me, sotto di me, gelida e spossante.

Guardo in su, nonostante la mia vista sia limitata dalla maschera di ferro.

Sono già stato qui una volta, molto tempo fa. Ero un bambino. Mentre cercavo di vedere oltre il cielo.

Avevo letto da qualche parte che dal fondo di un buco abbastanza profondo è possibile vedere le stelle, se la giornata è molto limpida. C’eri anche tu, in una delle tue rare visite. Ti avevo convinta ad aiutarmi nel mio piano; mi osservavi, con gli occhi spalancati e una mano premuta sulla bocca, mentre sollevai il secchio, lo posai saldamente sulla pietra e mi infilai dentro. Ti dissi di farmi scendere. Quella discesa fu poco meno violenta di quella a cui mi hanno sottoposto gli uomini della luogotenente. Non avevo considerato che il peso del secchio sarebbe stato molto maggiore con me dentro, che tu eri troppo debole, o semplicemente che avevi una certa inclinazione a tirarti indietro e a lasciare accadere ciò che doveva accadere. Afferrasti la manovella, reggesti per qualche istante mentre io spingevo il secchio al di là della vera del pozzo. Appena libero dal sostegno della pietra, precipitai all’istante. Lanciasti un urlo e facesti un tentativo di frenare la manovella, lasciandoti strattonare e sollevare in punta di piedi, poi mollasti.

Caddi nel pozzo. Picchiai la testa. Vidi le stelle.

Non mi venne in mente che, in un certo senso, avevo raggiunto il mio scopo. Ciò che vidi erano luci, strane, confuse, bizzarre. Fu solo in seguito che collegai i sintomi visivi di quell’impatto con le stelle e i pianeti stilizzati che vedevo nei fumetti quando un personaggio riceveva un colpo simile. In quel momento rimasi dapprima intontito, poi temetti di affogare, poi mi accorsi con un sospiro di sollievo che sotto il secchio l’acqua era così bassa, e infine ero furioso con te che mi avevi lasciato cadere e impaurito per quello che avrebbe detto la mamma.

In alto, la tua silhouette si sporse a guardare oltre l’orlo del pozzo. Anche se potevo vedere solo il tuo profilo, notai che badavi a tenere i capelli ben lontani dalle pietre del pozzo e dalla corda del secchio. Gridasti e mi chiedesti se stavo bene.

Riempii i polmoni e aprii la bocca per parlare, per gridare, e tu chiamasti di nuovo, e c’era una nota di panico crescente nella tua voce, e le tue parole bloccarono in fondo alla gola le mie. Mi fermai a pensare per un istante, poi mi lasciai andare all’indietro, aprii braccia e gambe, non dissi nulla ma chiusi gli occhi e aprii la bocca.

Mi chiamasti un’altra volta, e la tua voce era colma di terrore. Rimasi immobile, socchiudendo appena gli occhi per osservarti attraverso l’ombra delle ciglia. Scomparisti in cerca di aiuto.

Attesi un istante, poi mi rimisi in piedi e tirai la catena finché divenne corda; continuai finché la svolsi completamente dal cilindro di legno attaccato alla manovella. Il cranio mi ronzava, ma per il resto non avevo dolori. Mi attaccai alla corda e puntai i piedi in fuori, tentando di fare presa sulle pietre viscide della gola del pozzo. Io ero giovane e forte, la corda era nuova e il pozzo non era più profondo del fossato rispetto al cortile. Mi tirai su rapidamente fino in cima, poi mi issai oltre il bordo e atterrai sui ciottoli del cortile. Sentii voci allarmate che provenivano dal portone del castello. Corsi dalla parte opposta, verso il passaggio che conduce al ponte, sotto il corpo di guardia, e mi nascosi fra quelle ombre.

Papà e mamma comparvero insieme a te e al vecchio Arthur; la mamma strillava, agitando le mani. Papà gridò e disse ad Arthur di tirare la manovella dell’argano. La mamma si muoveva in tondo con le mani strette alla bocca, girando attorno al pozzo. Tu stavi indietro, con un’aria pallida e sconvolta, singhiozzando e respirando a fatica, con gli occhi fissi sulla scena.

«Abel! Abel!» gridò papà. Arthur si affannava alla manovella del pozzo, sudato. La corda strideva sul tamburo, e alla fine cominciò a sollevare qualcosa. «Maledizione, non riesco a vedere…»

«È colpa sua, sua!» gemeva la mamma, indicando te. Tu la guardavi senza espressione, e tormentavi l’orlo del vestito.

«Non fare la stupida!» le disse papà. «La responsabilità è tua: perché la grata del pozzo non è chiusa a chiave?»

Mi percorse allora un brivido sconvolgente; provai una sensazione che solo in seguito avrei potuto identificare come qualcosa di sensuale, di orgasmico, mentre osservavo in disparte gli altri che si preoccupavano, faticavano, si lasciavano prendere dal panico e recitavano solo per me. La vescica rischiava di mettermi in imbarazzo e dovetti serrare lo stomaco attorno a un grumo di gioia mentre allo stesso tempo incrociavo le gambe e mi stringevo con le dita la virilità ancora glabra per evitare di bagnarmi un’altra volta i calzoni.

Apparvero altri domestici e l’amante di nostro padre, affollandosi attorno al pozzo mentre Arthur portava alla superficie il secchio vuoto. I lamenti della mamma riempirono il cortile. «Una torcia!» gridò nostro padre. «Trovatemi una torcia!» Un domestico tornò di corsa dentro il castello. Il secchio era posato sul muretto, gocciolante. Papà saggiò la corda. «Può darsi che qualcuno debba scendere giù», dichiarò. «Chi è il più leggero?»

Io ero piegato al buio, e cercavo sempre di non farmela addosso. La fiamma di un’esaltazione feroce mi riempì, minacciando di esplodere.

Poi vidi la fila di goccioline che avevo lasciato, dal ponte al portico in cui mi trovavo. Guardai inorridito le chiazze, scure monete dell’acqua sporca del pozzo caduta dai miei abiti fradici sui ciottoli grigi e asciutti; due o tre per ogni passo. Ai miei piedi, nel buio, l’acqua aveva formato una piccola pozza. Volsi di nuovo gli occhi al cortile, dove si era radunata una folla ancora maggiore che quasi oscurava nostro padre, il quale stava adesso illuminando con una torcia il fondo del pozzo e spiegava ai domestici di sollevare le giacche sopra di lui, così che la luce del giorno non lo abbagliasse mentre tentava di vedere nell’oscurità.

Le gocce cha avevo lasciato luccicavano al sole. Non riuscivo a credere che nessuno le avesse notate. Adesso la mamma stava urlando in maniera isterica: un rumore acuto e stridente che prima non avevo mai sentito da lei né da nessun altro. Mi scuoteva l’anima, mi inondava la coscienza. Cosa dovevo fare? Mi ero vendicato di te — anche se, avevo notato, tu sembravi solo un po’ preoccupata — ed eri già stata almeno in parte incolpata, ma adesso dove sarei finito? Era tutto diventato molto più serio di quanto avessi previsto, passando con vertiginosa rapidità da una grandiosa beffa originata da un lampo di genio a qualcosa — lo capivo semplicemente dal numero e dall’anzianità degli adulti che stavano perdendo il controllo — che non sarebbe finito senza una punizione grave, dolorosa e prolungata inflitta a qualcuno: quasi sicuramente a me. Mi maledissi per non averci pensato prima. Da un abile piano alla caduta, all’affanno, alla calamità: tutto in pochi minuti.

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