Iain Banks - Canto di pietra

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Canto di pietra: краткое содержание, описание и аннотация

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In un mondo senza tempo e senza nome, devastato da una guerra che ha rivelato il fondo barbarico della natura umana, tra cumuli di macerie e colonne di profughi in fuga, si erge un antico castello di pietra. Tra le sue austere mura vive, assieme alla sorella-amante Morgan, Abel, l’ultimo discendente di una famiglia aristocratica. Per i due giovani, quel castello sarebbe un rifugio ideale, se un giorno, a turbare la loro idilliaca «intimità», non sopraggiungesse una banda di soldati irregolari, guidati da un oscuro personaggio femminile. Stregati dal fascino magnetico e perverso di quella donna senza volto e senza anima, Abel e Morgan si trasformano ben presto nelle pedine di un sordido gioco a tre, mentre l’antica dimora diviene teatro di inaudite violenze, eccessi e distruzioni, che porteranno in un crescendo di tensione e di suspense alla catastrofe finale.

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Scrollo le spalle e dico che non sono capace; è un’abilità che mi manca.

Appare la luogotenente con te sottobraccio; siete entrambe radiose, brillate di un’esaltazione condivisa che vi addolcisce. Lei stringe una bottiglia di brandy. Tu tieni in mano il brandello di un dipinto: un vaso di fiori, che ha un’aria ottusa e assurda in mano tua.

«Abel, non vuoi suonarci qualcosa?» grida la luogotenente piegandosi verso di me; il suo viso avvampato risplende, la sua carne è arrossata dal vino dentro di lei come la sua camicia bianca è chiazzata di fuori.

Ripeto con calma la mia scusa.

«Ma Morgan dice che sei un virtuoso!» grida, agitando la bottiglia.

Volto lo sguardo da lei a te. Hai un’espressione che ormai riconosco e in cui credo di essere rimasto intrappolato anche prima che ne fossi consapevole: le labbra appena separate, con gli angoli tirati e sollevati come per un sorriso incipiente, gli occhi socchiusi, con le scure palpebre abbassate, con le sfere acquose che vagano accomodanti in quell’ambiente calmo e umido. Cerco una qualche apologia, un’ammissione in quegli occhi, la più minuta alterazione di altezza o separazione di quelle labbra che possa esprimere rincrescimento o anche comprensione, ma non trovo nulla. Ti rivolgo il mio sorriso più triste; tu sospiri e ti lisci i capelli, poi distogli lo sguardo, per osservare di lato la testa della luogotenente, la curva della sua guancia sopra l’alto colletto bianco.

La luogotenente mi dà un pugno sulla spalla. «Avanti, Abel, suonaci qualcosa! Il tuo pubblico ti aspetta!»

«Ovviamente la mia modestia è stata del tutto inutile», mormoro.

Estraggo un fazzoletto dalla tasca e lo apro mentre gli uomini e le donne che ancora stavano nell’atrio si radunano attorno al pianoforte; pulisco la tastiera da tracce di cibo, cenere e macchie di vino che si è anche seccato sui tasti bianchi. Inumidisco di saliva il fazzoletto. La superficie liscia e splendente dell’avorio ha preso la stessa sfumatura giallastra dei capelli dei vecchi.

Il pubblico si fa impaziente, strascica i piedi e borbotta. Io allungo una mano dentro lo strumento ed estraggo un bicchiere di vino posato sulle corde e lo passo a qualcuno al mio fianco. Gli uomini e le donne attorno al piano sbuffano e ridacchiano. Poso le mani sui tasti, parti di zanne strappate a creature morte, un cimitero degli elefanti fra le colonne di legno nere come il cuore.

Comincio a suonare un’aria, qualcosa di leggero, quasi inconsistente, ma con un certo ritmo e un delicato equilibrio, e passo per una naturale consequenzialità, con una progressione inerente e non forzata, a una conclusione più pensosa e dolceamara. Il silenzio si impadronisce di quelli che si sono radunati ad ascoltarmi, qualcosa che si posa al di sopra del loro energico desiderio di divertirsi come un telo nero gettato sulla gabbia di un saltellante uccello canterino. Muovo le mani con un movimento carezzevole, studiato, attento, la danza delicata delle mie dita sui tasti è in sé un piccolo balletto armonioso, un’arcata ipnotica di ossa ricoperte di carne che sfiorano l’avorio con l’apparenza di una grazia fluida e naturale, che solo una mezza vita di studio e migliaia di aritmetiche e tediose ripetizioni di sterili scale consentono di ottenere.

Nel punto in cui la struttura del pezzo, per la sua grammatica implicita, avrebbe dovuto condurre a una dolce celebrazione del tema principale e a una gentile risoluzione, introduco un cambiamento assoluto. Le mie mani erano un paio d’ali che scorrevano con dolcezza e solennità su ogni minuscola particella d’aria sopra il letto dei tasti. Adesso diventano artigli proletari, grosse zampe arcuate con le quali colpisco il lastricato della tastiera con un fatuo passo di marcia, uno-due, uno-due, uno-due. Allo stesso tempo la melodia — sempre riconoscibilmente connessa all’agile ed elegante figura di prima — diventa un automa istupidito di stridenti dissonanze seguite da crudeli armonie, che si scontrano e strisciano furtive nel corso della canzone, e le cui goffaggini, nel riecheggiare la grazia di prima e nel richiamare all’orecchio la sua dolcezza, la scherniscono con una violenza ancora maggiore e insultano l’ascoltatore più pienamente di quanto sarebbe riuscito a fare un cambio radicale di genere e ritmo.

Alcuni dei miei ascoltatori sono così irrimediabilmente privi di gusto da continuare a sorridere e a fare cenni con la testa, marionette legate alle corde che tocco. Altri, però, fanno un passo indietro, o mi lanciano occhiate di fuoco, o fanno versi di disapprovazione e scuotono il capo. La luogotenente si limita a stendere la mano e posarla sul coperchio della tastiera. Faccio appena in tempo a togliere le dita prima che ricada con un tonfo.

Mi volto verso di lei, ruotando sullo sgabello. «Pensavo che vi sarebbe piaciuto», le dico, con la voce e le sopracciglia alzate, nel tono e nell’immagine dell’innocenza. La luogotenente mi dà uno schiaffo. Molto forte, bisogna dirlo, anche se è stato impartito con una sorta di spassionata autorità, come un accorto genitore di una prole numerosa potrebbe colpire il primogenito, per tenere in riga anche gli altri. Il rumore immobilizza gli astanti con un’efficacia anche maggiore del mio tentativo musicale.

Mi pizzica la guancia. Sbatto le palpebre. Porto una mano alla guancia, dove c’è un po’ di sangue. La causa, immagino, sarà l’anello di oro bianco e rubino sulla mano della luogotenente. Lei mi fissa tranquilla. Guardo te. Sembri appena sorpresa. Qualcuno mi afferra da dietro per le spalle e un’ondata di alito fetido mi spazza la faccia. Un’altra mano mi stringe per i capelli e mi tira indietro la testa; il tizio sta ringhiando. Cerco di non staccare lo sguardo dalla luogotenente. Lei alza la mano, guardando gli uomini dietro di me. Scuote la testa. «No, lasciatelo.» Guarda me. «Che peccato, Abel: rovinare una canzone così bella.»

«Davvero? A me sembrava un miglioramento. È solo una canzone, in fondo. Una cosa senza vita.»

Lei scoppia a ridere, gettando all’indietro la testa. Sul fondo della bocca scintilla dell’oro. «Be’, d’accordo, Abe», dice. Indica i tasti con la bottiglia. «Continua a suonare, allora. Suona quello che ti pare. È la nostra festa, ma il piano è tuo. Decidi tu. No: un valzer. Suona un valzer. Così io e Morgan possiamo ballare. Sei capace di suonare un valzer, Abe?»

Osservo te, mia cara. Sbatti le palpebre. Cerco di trovare una scintilla di comprensione nei tuoi occhi. Alla fine faccio un piccolo inchino. «Un valzer.» Mi alzo, apro lo sgabello e frugo tra le musiche che contiene. «Ecco qua.» Sollevo il coperchio e metto la musica sul leggio. La suono come è scritta. Leggo, suono, aggiungo qualche pedestre abbellimento ogni tanto, sono una semplice conduttura per le note stampate, per i suoni nella mente del compositore, per la forma dell’opera; una scusa a cui attenersi, una colonna sonora per la civetteria, il corteggiamento, l’accoppiamento e la fortuna.

Quando finisco mi guardo intorno, ma tu e la luogotenente ve ne siete andate. Tutti i soldati e le loro ondeggianti conquiste applaudono, poi gli uomini convergono su di me, mi inchiodano sul pavimento, mi legano mani e piedi con le corde ricamate delle campanelle e mi ficcano in testa l’elmo di un’armatura. Nell’elmo, il mio respiro rimbomba; sento l’odore del mio alito e del mio sudore e quello metallico dell’antichità. La vista di ciò che avviene all’esterno è ridotta a una serie di minuscoli oblò, singole perforazioni nell’antico acciaio. La mia testa picchia contro il metallo mentre mi tirano su e mi portano, sempre legato, in cortile dove — mentre vengo capovolto e rigirato e ciò che vedo rotea furiosamente — il cannone scintilla alla luce elettrica e a quella delle torce, e i ciottoli risplendono. Sollevano la grata di ferro che chiude la bocca del pozzo, tirano su il secchio (sento il cigolio della catena), posano il secchio sull’orlo di pietra e mi ci mettono dentro, piegandomi le gambe finché il bordo del secchio punta contro la mia spina dorsale e mi ritrovo le ginocchia contro il mento. Poi, ridendo, mi spingono sopra il buco, tengono per un istante la corda e poi mi lasciano cadere. Cado dritto nel pozzo: sferragliare di catena e sibilo di vento.

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