Iain Banks - Canto di pietra

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In un mondo senza tempo e senza nome, devastato da una guerra che ha rivelato il fondo barbarico della natura umana, tra cumuli di macerie e colonne di profughi in fuga, si erge un antico castello di pietra. Tra le sue austere mura vive, assieme alla sorella-amante Morgan, Abel, l’ultimo discendente di una famiglia aristocratica. Per i due giovani, quel castello sarebbe un rifugio ideale, se un giorno, a turbare la loro idilliaca «intimità», non sopraggiungesse una banda di soldati irregolari, guidati da un oscuro personaggio femminile. Stregati dal fascino magnetico e perverso di quella donna senza volto e senza anima, Abel e Morgan si trasformano ben presto nelle pedine di un sordido gioco a tre, mentre l’antica dimora diviene teatro di inaudite violenze, eccessi e distruzioni, che porteranno in un crescendo di tensione e di suspense alla catastrofe finale.

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L’idea mi apparve come un salvagente a un uomo che affoga. Raccolsi tutto il mio coraggio e lasciai il nascondiglio nelle ombre sotto il corpo di guardia, avanzando malfermo e sbattendo le palpebre. Lanciai un debole grido, tenendomi una mano alla fronte, poi gridai un po’ più forte, dato che il primo era stato ignorato. Qualcuno si voltò, poi tutti; si levarono urla ed esclamazioni. Feci qualche altro passo esitante mentre la gente mi correva incontro, poi crollai teatralmente sui ciottoli appena prima che mi raggiungessero.

Quando fui seduto, consolato, con la testa premuta contro il petto gemente della mamma, con le mani tenute e strofinate da due diversi domestici, sospirai e dissi «Oh, povero me» e sorrisi valorosamente e sostenni di aver trovato un tunnel segreto dal fondo del pozzo al fossato, e che avevo strisciato e nuotato finché non ne ero uscito, mi ero arrampicato sull’argine e avevo percorso, esausto, il passaggio sotto il corpo di guardia.

Ero quasi convinto di averla fatta franca quando papà si acquattò davanti a me, con un’espressione cupa e gli occhi di pietra. Mi fece ripetere la storia. La ridissi, esitando, non più così sicuro di me. Avevo detto che mi ero arrampicato sull’argine? Volevo dire il ponte. I suoi occhi si strinsero. Pensando di colmare un buco, ma in realtà portando un’altra fascina al mio rogo, dissi che il passaggio segreto era crollato alle mie spalle; non sarebbe servito, dunque, mandare qualcuno di sotto a controllare. Anzi, tutto il pozzo era pericolante. Io mi ero salvato per puro miracolo.

Guardare negli occhi nostro padre era come guardare in un tunnel nero senza stelle in fondo. Era come se mi stesse vedendo per la prima volta, come se io stessi fissando un passaggio segreto attraverso il tempo, fino ad acquisire una prospettiva da adulto, grazie alla quale capivo come mi sarebbero sembrati il mondo e le storie di bambini bugiardi e impertinenti quando avessi raggiunto la sua età.

Le parole mi morirono in gola.

Lui allungò il braccio e mi schiaffeggiò, con forza, in piena faccia. «Non essere ridicolo, ragazzino», disse, concentrando in quelle poche parole tutto il disprezzo che una lingua riesce a comunicare. Si rialzò agilmente e si allontanò.

La mamma gemette, e si mise a strepitare in maniera incoerente contro di lui. I domestici avevano un’aria confusa: alcuni fissavano me con un’espressione preoccupata, altri seguivano lui con lo sguardo, mentre rientrava nel castello. La sua amante lo seguì, tenendo te per mano.

Arthur, che allora mi appariva vecchio ma in realtà non lo era, guardò il vuoto nella folla creato dalla partenza di nostro padre; la sua espressione era preoccupata e piena di rimpianto, scuoteva la testa o sembrava volerlo fare; non perché avessi vissuto una terribile avventura e poi, ingiustamente, il mio stesso padre non mi avesse creduto e, anzi, mi avesse colpito con violenza, ma perché anche lui riusciva a vedere attraverso la mia misera e disgraziata bugia, ed era preoccupato per l’anima, per il carattere, per la futura tempra morale di un bambino così svergognato — e incapace — da ricorrere con tanta facilità a bugie simili. In quella compassione c’era un rimprovero altrettanto severo e sferzante di quello che nostro padre mi aveva indirizzato con la doppia manciata di dita e di parole; proprio in quanto confermava che era quello il giudizio maturo e consapevole delle mie azioni e di quelle di mio padre e non un’aberrazione che avrei potuto minimizzare o ignorare, il muto rimprovero di Arthur mi colpì ancor più in profondità.

Cominciai a piangere. E piansi non con le calde lacrime facili e futili della frustrazione e della rabbia infantili, ma con la prima angoscia da adulto, con un dolore intenzionalmente spogliato di qualunque piccola preoccupazione da bambino; grandi lacrime singhiozzanti di un dolore che veniva dal cuore — non solo egoistico, per un angusto senso dell’utile o dello spiacevole, perché ero stato scoperto o perché sapevo che probabilmente mi aspettava una lunga punizione, anche se c’era anche questo — ma per aver fatto perdere a nostro padre la fiducia e l’orgoglio nel suo unico figlio maschio.

Ecco cosa mi torturava, e si estendeva fino alle pietre del castello; ecco cosa mi afferrava come un artiglio e spremeva da me quelle lacrime fredde e amare di dolore e non poteva essere placato dalle tenere carezze di mia madre e dai dolci colpetti sulla schiena e dai morbidi abbracci.

In seguito, la mamma avrebbe continuato a dichiarare che credeva alla mia storia, anche se ho il sospetto che lo dicesse solo per sottrarre a nostro padre il suo ultimo convertito, per frustrare la sua volontà; un’altra falsa vittoria nella campagna ultradecennale che combattevano l’uno contro l’altra, dapprima nel castello, assediandosi e tradendosi a vicenda, poi separati. Lei conveniva che dovessi essere punito, anche se per salvare la faccia sosteneva che la ragione era la mia idea di scendere nel pozzo. (La mia pretesa di essere caduto, che anche il fatto di essere sceso nel pozzo era stato un incidente, era stata contraddetta da te, mia cara, che già rivelavi un improvvido rispetto per la verità.)

E così venni mandato in camera mia per la prima di molte notti, senza altra compagnia che i libri di scuola e razioni da prigioniero.

Il mio esilio mi apportò un beneficio incalcolabile, un premio che non avevo per nulla cercato e che, anni dopo, sarebbe maturato fino a consolidarsi.

Venisti tu in camera mia, dopo aver persuaso un domestico a lasciarti entrare con un passe-partout, così da poterti scusare per quella che, secondo te, era stata la tua responsabilità nel mio delitto. Portasti un dolcetto rosa che avevi preso in cucina e nascosto nel vestito. Ti inginocchiasti accanto al mio letto. Un’unica lampada da comodino illuminava le mie guance gonfie di lacrime e i tuoi occhi neri e spalancati. Mi porgesti il dolce con le due mani, con un rispetto quasi comico. Lo presi annuendo, ne mangiai metà col primo morso, e poi mi infilai il resto in bocca.

Ti alzasti in piedi con una grazia misteriosa e sollevasti il vestito per denudare la carne dal bordo dei calzini all’ombelico. Ti fissai smettendo di masticare, con la bocca piena di una pasta rosea e zuccherosa. Fermasti l’orlo del vestito sotto il mento, poi infilasti una mano sotto le lenzuola e mi prendesti la mano più vicina, guidandola con dolcezza verso la fessura lanuginosa tra le tue gambe, tenendola premuta lì e strofinandola piano avanti e indietro. L’altra tua mano si chiuse attorno ai miei genitali, e poi cominciò a tirare e accarezzare il mio sesso. Inumidite, incoraggiate, le mie dita scivolarono dentro di te, lasciandomi sbalordito sia per essere stato in qualche modo inghiottito sia per il calore che vi scoprii. Anch’io inghiottii di riflesso: il boccone del dolce rosato.

Tu continuavi a massaggiare insieme me e te, mentre io restavo sdraiato, ancora incredulo, paralizzato dalla novità di quanto accadeva, da quell’ultimo e bizzarro cambiamento della sorte. Avevo paura a reagire, esitavo perfino a manifestare la minima volontà, temendo che la stupefacente (e perciò, di necessità, precaria) combinazione di circostanze che aveva elargito tale imprevedibile rapsodia venisse sconvolta dal minimo errore da parte mia.

Dopo aver guidato le mie dita inghiottite in te con un ritmo più rapido e più deciso, all’improvviso ti mettesti a tremare, sospirasti, e subito dopo allontanasti la mia mano dandomi un colpetto sul polso. Lasciasti ricadere il vestito, tirasti indietro le mie coperte, poi ti inginocchiasti e mi prendesti in bocca, succhiando e muovendo la testa, con i tuoi capelli che mi facevano il solletico alle cosce.

Mi limitai a guardare. Forse fu semplicemente quella sorpresa, forse — più probabile — il fatto che ero ancora troppo piccolo. In ogni caso, non ci fu, in quella prima prova, nessuna culminante esplosione di tripudio né alcuna emissione nel tempo che avemmo a disposizione. Il solletico, il movimento della testa, il succhiare andarono avanti per un po’, finché il domestico, sempre più nervoso per la paura di essere scoperto, bussò alla porta e la aprì appena per sussurrare un ammonimento. Lasciandolo cadere dalla bocca come uno scintillante lecca lecca, baciasti il mio roseo gonfiore, poi lo copristi e ti allontanasti con calma eleganza; la porta si aprì e si richiuse per te e rimasi solo.

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