Iain Banks - Canto di pietra

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Canto di pietra: краткое содержание, описание и аннотация

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In un mondo senza tempo e senza nome, devastato da una guerra che ha rivelato il fondo barbarico della natura umana, tra cumuli di macerie e colonne di profughi in fuga, si erge un antico castello di pietra. Tra le sue austere mura vive, assieme alla sorella-amante Morgan, Abel, l’ultimo discendente di una famiglia aristocratica. Per i due giovani, quel castello sarebbe un rifugio ideale, se un giorno, a turbare la loro idilliaca «intimità», non sopraggiungesse una banda di soldati irregolari, guidati da un oscuro personaggio femminile. Stregati dal fascino magnetico e perverso di quella donna senza volto e senza anima, Abel e Morgan si trasformano ben presto nelle pedine di un sordido gioco a tre, mentre l’antica dimora diviene teatro di inaudite violenze, eccessi e distruzioni, che porteranno in un crescendo di tensione e di suspense alla catastrofe finale.

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O non del tutto: arrotolai di nuovo le coperte per osservare il mio nuovo amico, che ormai mi stava lentamente abbandonando. Lo toccai a titolo sperimentale mentre mi annusavo lo strano aroma sulle dita, ma la mia virilità se ne andò di sua iniziativa, e non l’avrei più rivista appieno fino al giorno in cui il vento e la pioggia mi tesero un’imboscata nei boschi fangosi.

Tu, mia cara, non avresti rivisto lo spettro che avevi risvegliato fino al nostro convegno sul tetto del castello, dieci anni dopo, in una notte tiepida, sopra la festa.

QUINDICI

L’acqua nera del pozzo sa di marcio: è l’odore di qualcosa che trasuda dalla terra, un odore che, benché rancido, dovrebbe almeno essere caldo e avvolgente, e invece è freddo e acuto. Colgo anche una traccia di odore umano, che indica che il vino e il cibo vomitati qui dentro si sono mescolati all’orina per creare toni ancora più pungenti che accompagnano il lezzo terroso del buco.

Tiro su nel naso un po’ di sangue; dentro l’elmo di metallo avverto una specie di rimbombo. Cerco di alzarmi ma mi sento paralizzato dal freddo. Mi chiedo da quanto tempo mi trovo qui. Alzo la testa, facendo sbattere l’elmo contro la parete del pozzo, per cercare di vedere l’imboccatura. Luce. Luce attraverso i fori dell’elmo, forse. O no. Sbatto gli occhi e la vista si mette a girare. Mi fa male il collo. Abbasso la testa e vedo ancora le luci.

Poi rivedo le stelle e resto sdraiato nel cuore svuotato del castello, stretto nel suo abbraccio notturno, mentre la sua avida freddezza mi infetta, e mi sento parte dei suoi soffocanti detriti: un altro granello disperso, gettato prima agli elementi più rapidi e poi al suolo, fatto rotolare lungo una direzione, una strada, un letto che non ho la possibilità di scegliere, e nessun modo di abbandonare.

Io non sono che cellule: niente di più, credo. La presente combinazione — ossa, carne, sangue — è più complicata della maggior parte delle miscele similari reperibili sulla rozza superficie del mondo, e la mia quota di plasma cosciente può essere maggiore di quanto riescano a mettere insieme altri animali, ma il principio è lo stesso, e il risultato di tanta sapienza in eccesso è semplicemente quello di farci conoscere appieno la verità della nostra irrilevanza. Il mio corpo, tutto questo essere stordito, sembra poco più di un mucchio di foglie d’autunno, sospinte e adunate da un mulinello di vento, e intrappolate, stipate da una casuale geografia sussidiaria in un deposito circoscritto. In che cosa sono più importante di quella temporanea pila di foglie, di quell’aggregato di cellule, sottoposte a una morte collettiva? Perché ciascuno di noi dovrebbe avere più significato?

Eppure continuiamo ad ascrivere a noi stessi una quantità di dolore, di gioia, di peso, di importanza maggiore rispetto a qualsiasi altro ammasso di materia, ed è questo il nostro sentimento profondo. Forse ci lasciamo sedurre dalle nostre stesse immagini, e quella di una foglia secca trascinata lungo la strada non è la stessa di un profugo.

Portiamo dentro di noi il limo dei nostri ricordi, come i tesori riposti nelle soffitte del castello e ne siamo sbilanciati, ma il nostro limo ha profondità geologiche e risale, attraverso le storie comuni, le genealogie, le stirpi, ai primi contadini, al primo gruppo di cacciatori, alla prima caverna condivisa o albero con un nido. Grazie al nostro spirito riusciamo a risalire ancora più indietro, e al di là, tanto che conserviamo gli strati sepolti delle geologie di tutti i pianeti negli stadi del cervello, e conteniamo nel nostro corpo la conoscenza delle esplosioni dei soli che vissero e morirono ben prima che noi esistessimo.

Più è profondo il limo più è potente il flusso, e non riesco a scendere fino in fondo, fino agli estremi detriti, non finché respiro e penso e sento. Le mie ossa potrebbero restare comodamente qui sotto — solo minerali, cose fredde, «cose» — ma non l’uomo che pensa a un eventuale epilogo.

Sprofondato in questo buco, credevo un tempo di vedere le profondità del cielo, di guardare in quel passato che è l’antica luce delle stelle, e allo stesso modo adesso, abbassato a una comprensione più elevata, aiutato dai miei torturatori, credo di vedere la via verso il futuro. Da qui, con questa nuova prospettiva, credo di vedere l’insieme del castello, il suo disegno si staglia su di me, trasparente e confermato, grazie a una terra non più opaca, che mette a nudo le pietre dell’edificio innalzate dal suolo alla comunione della pioggia e dell’aria.

Ecco la casa militante, un’impresa perfettamente abbozzata rannicchiata attorno a un vuoto segreto e protetto, con le insegne e le bandiere che si agitano impavide al soffio di venti volgari; un pugno in un guanto di ferro che prevale sull’aria spianatrice.

Giaccio sul fondo, seminale, germinale; una cosa diretta verso il fango, verso la terra, in evoluzione, per nulla sgomentata dal peso del passato incommensurabile compresso sotto di me e dalla colonna di atmosfera che tenta di schiacciarmi, due forze che insieme premono e mi costringono a sottomettermi e a diventare parte di una superficie più grande e più grossolana.

Ma adesso è adesso, è adesso la richiesta, e devo agire.

Tento di scrollarmi o di strapparmi via l’elmo, ma non ce la faccio. Decido di liberare prima le mani.

Mi dimeno, intirizzito dal freddo, per sciogliere il nodo. Piego le dita e cerco di far presa sulla corda di campanella che mi tiene strette le mani. Spingo e tiro e contorco i polsi tra i legacci.

Un rumore, di sopra.

Alzo lo sguardo nel buio, e mi pisciano addosso; l’urina rimbalza su di me, risuonando delicatamente sull’elmo e sibilando nell’acqua. È appena tiepida: il passaggio nell’aria fresca della gola del pozzo l’ha portata quasi alla stessa temperatura dell’acqua immobile sul fondo. Qualche grido, e poi, con un tonfo che mi fa sussultare, qualcosa di solido colpisce l’elmo e finisce in acqua. Risate, di sopra; altre grida, che si affievoliscono e poi tornano. Poi alcuni conati di vomito.

E il vomito, questa volta. È più caldo dell’urina. Il suo fetore rancido cresce attorno a me. Soprattutto vino, direi. Altre risate, poi il silenzio.

Continuo a lottare con i legacci che mi stringono i polsi. Credo che se solo riuscissi a vedere bene, anche in questa oscurità quasi totale, ce la farei. Ma ho bisogno delle mani per togliermi l’elmo. Provo, invece, a mettermi in piedi nel secchio, pensando che potrei riuscire a liberarmi dell’elmo se riuscissi a incunearlo con più forza contro la parete del pozzo. Anche questo tentativo fallisce: le mie gambe si rifiutano di collaborare.

Mi rimetto al lavoro coi nodi. Sono diventati umidi e scivolosi; le dita non fanno presa sulla superficie viscida. Finalmente, sento qualcosa che si scioglie a un’estremità del nodo, ma per quanto torca i polsi e allarghi il più possibile le dita non riesco a tirare il capo.

Ricado all’indietro, esausto, vedendo ancora le luci davanti agli occhi. Credo di aver perso conoscenza.

Non passa molto tempo, o forse sì.

Mi piego in avanti per incastrare la visiera dell’elmo contro la catena dell’argano, e poi, un anello alla volta, spingo all’insù la visiera finché riesco a portarla sopra la testa e a bloccarla. Adesso finalmente ci vedo, anche se non c’è molto da vedere. Vorrei che l’aria fosse più respirabile. Alzo lo sguardo: una corona stellare di pietra, composta di luci riflesse, mi fissa a sua volta, vuota.

Vederci non mi aiuta a sciogliere la corda. Dopo un’altra pausa boccheggiante e altre vertigini, mi piego all’indietro, sollevo i polsi, mi protendo con la bocca e faccio pendere verso i denti il capo pendulo della corda.

La puzza è spaventosa; qualcosa di umido mi gocciola sulla faccia. Ho un conato di vomito, devo fermarmi. Quando è passato lo stimolo faccio un altro tentativo. Alla fine riesco ad afferrare fra i denti la corda. Comincio a tirare, torcendo di nuovo i polsi e cercando di sfilare le mani.

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