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Iain Banks: Canto di pietra

Здесь есть возможность читать онлайн «Iain Banks: Canto di pietra» весь текст электронной книги совершенно бесплатно (целиком полную версию). В некоторых случаях присутствует краткое содержание. Город: Parma, год выпуска: 1999, ISBN: 978-88-8246-095-2, издательство: Ugo Guanda, категория: Современная проза / на итальянском языке. Описание произведения, (предисловие) а так же отзывы посетителей доступны на портале. Библиотека «Либ Кат» — LibCat.ru создана для любителей полистать хорошую книжку и предлагает широкий выбор жанров:

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Iain Banks Canto di pietra

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In un mondo senza tempo e senza nome, devastato da una guerra che ha rivelato il fondo barbarico della natura umana, tra cumuli di macerie e colonne di profughi in fuga, si erge un antico castello di pietra. Tra le sue austere mura vive, assieme alla sorella-amante Morgan, Abel, l’ultimo discendente di una famiglia aristocratica. Per i due giovani, quel castello sarebbe un rifugio ideale, se un giorno, a turbare la loro idilliaca «intimità», non sopraggiungesse una banda di soldati irregolari, guidati da un oscuro personaggio femminile. Stregati dal fascino magnetico e perverso di quella donna senza volto e senza anima, Abel e Morgan si trasformano ben presto nelle pedine di un sordido gioco a tre, mentre l’antica dimora diviene teatro di inaudite violenze, eccessi e distruzioni, che porteranno in un crescendo di tensione e di suspense alla catastrofe finale.

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Alcuni, solo feriti, cadono sbattendo un’ala, intrappolati in una confusione di foglie cadute ed esplose fino ad atterrare ai tuoi piedi: quando colpiscono il suolo cinguettano e si agitano con eccentrica preoccupazione di sé, solo per essere calpestati.

Quando eri più giovane, ti saresti messa a piangere a sentire un simile scricchiolio di minuscoli crani. Ma hai imparato a distogliere lo sguardo e a controllare il tuo fucile o, in mezzo ai fili di fumo che si arricciano grigi attorno ai tuoi capelli raccolti a crocchia, ad aprirlo e ricaricare.

Ah, quanto ti ho desiderata in quel momento; ti volevo per la notte, senza aspettare che ti lavassi, per metà vestita, in un viluppo di abiti e tappeti e stivali e cinture, divorato da un fuoco impaziente mentre l’odore di quel fumo di cartuccia indugiava cupo sulla tua pelle e nei tuoi capelli scomposti.

Non sarebbe stato così. Dopo avermi assegnato la dignità di cane per il resto di quella battuta di caccia, e avermi fatto riempire due sacche di bottino, la luogotenente mi avrebbe ordinato di andare a letto presto come un bambino ribelle, appena arrivati al castello.

Doveva essere a causa della mia trasgressione, ritengo. Tra cane da caccia e bambino, sono diventato per un po’ una bestia da soma: mi viene ordinato di portare le pesanti sacche, calde di uccelli morti, e un fucile aperto, per tutta la ripida discesa fino al castello.

Dietro di me, la luogotenente continua a parlare, intrattenendoti con la sua vita; un’altra famiglia a pezzi. Un misero avvio, in tempi meno tormentati, modeste vittorie a scuola e nello sport su cui si fonda un barlume di considerazione di sé e che conducono a una lotta lenta e determinata per innalzarsi dal resto del gregge. Poi un periodo in qualche università e poi — grazie alla timida spinta di una delusione d’amore — la decisione di arruolarsi, qualche tempo prima dello scoppio delle presenti ostilità.

Insomma, una di quelle persone per le quali simili disordini sono in verità una liberazione, dato che portano a edificare un carattere individuale nel teatro di questa più vasta rovina; un piccolo vortice di creazione in questi tempi così ferocemente corrosivi. La nostra luogotenente è uno spirito liberato dal riordino implicito in questo generale disordine; una beneficiaria, almeno fin qui, del conflitto. Ciò che ha trascinato al fondo noi ha fatto emergere lei e, nel castello, ci incontriamo, specchiandoci gli uni nell’altra, e forse ci diamo il cambio.

Mi piacerebbe ascoltare qualcos’altro della storia di colei che ci ha fatti prigionieri, ma cogliendo l’occasione faccio cadere il mio prezioso carico. Sul primo ponte che attraversa il torrente scivolo e mi afferro al parapetto sguisciante, e lascio che le sacche rigonfie mi sfuggano, insieme al fucile, così che tutto il bottino della luogotenente se ne vola verso le rapide più sotto. Il fucile sparisce in silenzio, il suo tonfo si perde nell’infinito flusso schiumante del ripido torrente. Le sacche cadono più lentamente, finiscono in un gorgo e lasciano uscire i loro morti. Gli uccelli nuotano fuori, la schiuma si riempie di penne e piume, piombo e carne, e gli uccelli, fradici, fluttuano e girano in cerchio e si allontanano e fuggono via nel torrente, quasi fosse una corrente d’aria.

Mi alzo con lentezza, e mi asciugo la melma verde che ho sulle mani. La luogotenente mi raggiunge, con una faccia torva. Dà un’occhiata, oltre la balaustra del ponte, al torrente rombante e vorticoso che sta portando via tutto il suo bottino. «Che sbadataggine, Abel», mi dice attraverso labbra simili a una ferita grigio-rosa e denti poco inclini a separarsi.

«Probabilmente ho messo le scarpe sbagliate», le spiego, con aria di scusa. Lei abbassa gli occhi sulle mie grosse scarpe marroni; hanno a prima vista un’aria ragionevolmente rustica, ma le suole sono poco adatte a questo terreno.

«Forse», dice. Credo proprio di aver paura di lei, solo per un istante. Potrei credere che sia capace di farmi un buco nella pancia con la doppietta, o di ficcarmi in testa una pallottola della sua pistola, o semplicemente di ordinare ai due soldati di gettarmi oltre il parapetto di legno. Invece lancia un’ultima occhiata al punto in cui gli uccelli spariscono fra le rocce e, quando li ha persi di vista in quelle rapide, ordina ai soldati di darmi la sacca dei fucili. «Questi non li perderei, Abel», dice con un tono quasi triste. «Sul serio.» Si volta. «Stai attento al nostro amico», dice al soldato dietro di me. «Non vorremo certo che scivoli di nuovo. Sarebbe una cosa proprio terribile. Vero, cara signora?» ti chiede mentre ti oltrepassa. Andiamo avanti, e lasciamo il rombo del fiume sepolto nel suo abisso.

Sono rinchiuso in una camera alta e mai usata, una palude interrata nel piano più alto della torre orientale. È ingombra di tutta la schiuma della nostra vita, come la soffitta dalle dolci memorie. Le finestrelle sono quasi tutte infrante, e i davanzali ricoperti di guano. I vetri rotti lasciano entrare la pioggia gelata; cerco di tappare i buchi con vecchie tende. Accendo nel caminetto un fuoco intermittente con volumi rilegati di vecchie riviste dalle pagine ingiallite, alcune delle quali trattano di caccia e di altre materie rurali; mi sembra molto appropriato. Il tema continua. Non posso credere che la brava luogotenente abbia memorizzato in un solo giro tutte le stanze del castello, perciò concludo che è un caso che mi abbia confinato qui, con queste vecchie raccolte di giornali e — in bacheche di vetro — trofei di antiche cacce. Mammiferi, uccelli e pesci guardano fuori, con occhi vitrei, in pose irrigidite, come goffi antenati nei ritratti. Le bacheche sono serrate, e non trovo le chiavi; per questo forzo alcuni di questi sarcofagi trasparenti, scheggiando il legno e incrinando il vetro.

Guardando l’uccello impagliato, il pesce sventrato, la volpe e la lepre con gli occhi di vetro, picchietto i loro occhi duri e morti, annuso il piumaggio che non conosce polvere e accarezzo le loro strane pelli secche. Penne e squame resistono alla mia mano. Li tengo davanti alla luce della candela per tentare di scorgere il legame che li unisce, il loro lentissimo trapasso dal mare all’aria, dalle squame alle penne, da coda a coda, da iridescenza a iridescenza; a quel legame, a quel trapasso tali estremità rimandano, esprimendo la glaciale ed erratica continuità dell’evoluzione.

Apro una finestrella che dà sul fossato e lancio gli uccelli: cadono. Spingo fuori i pesci, verso le acque: stanno a galla. Suppongo che questo riveli l’elemento aggiuntivo: l’animazione presente nelle cose viventi che sovrasta tutto il resto e fa sì che fuoco, aria, terra e acqua sembrino più simili l’uno all’altro di quanto possano mai essere affini a essa.

Proprio così: l’uccello e il pesce, distinti per elemento vitale, sono più simili l’uno all’altro di quanto entrambi lo siano a noi. (Distendo le ali non infilzate — stridono contro la loro carena. Il corpo flessuoso della trota, un unico muscolo avvolto in un tessuto color arcobaleno, rimane rigido come un osso.) Ma la loro è la bellezza degli estremi, e ricordo di aver scorto una volta il profilo di un pipistrello contro il fascio di luce di un proiettore: la sua pelle era come carta traslucida, ogni osso, lungo e sottilissimo, era distinto in quella radiografia di un volo. La creatura era aggraziata, ma il profilo di un arto allungato, la forma dell’artiglio, tesa e contorta fino a diventare metà di tutta l’ala, sembravano un’assurda distorsione, una forma folle ed esagerata di cui la natura dovrebbe in verità sentirsi colpevole. La grazia e l’equilibrio conferiti all’animale da quell’esagerata correzione delle sue parti ereditate, da mano ad ala, è qualcosa che ha bisogno di tempo e di una mente che lo plasmi con tale decisione.

Butto via quelle cose inutili, le brucio sul letto delle pagine. Prima di coricarmi, su una piattaforma di scatole, tappeti e mantelli, mangio il piatto di pavone arrosto che hai convinto la luogotenente a mandarmi.

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