Iain Banks - Canto di pietra

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Canto di pietra: краткое содержание, описание и аннотация

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In un mondo senza tempo e senza nome, devastato da una guerra che ha rivelato il fondo barbarico della natura umana, tra cumuli di macerie e colonne di profughi in fuga, si erge un antico castello di pietra. Tra le sue austere mura vive, assieme alla sorella-amante Morgan, Abel, l’ultimo discendente di una famiglia aristocratica. Per i due giovani, quel castello sarebbe un rifugio ideale, se un giorno, a turbare la loro idilliaca «intimità», non sopraggiungesse una banda di soldati irregolari, guidati da un oscuro personaggio femminile. Stregati dal fascino magnetico e perverso di quella donna senza volto e senza anima, Abel e Morgan si trasformano ben presto nelle pedine di un sordido gioco a tre, mentre l’antica dimora diviene teatro di inaudite violenze, eccessi e distruzioni, che porteranno in un crescendo di tensione e di suspense alla catastrofe finale.

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Mi alzo e mi dirigo verso le nostre stanze; i cuscini sono ammucchiati in una strana maniera sul tuo letto, e quando li sposto, trovo due fori di proiettile nella testiera. Risistemo i cuscini e passo in camera mia. Sento un odore di bruciato; forse vecchi crini di cavallo. Non riesco a trovare la possibile fonte di quell’odore, anche se forse il materasso mi sembra diverso, quando mi ci siedo sopra per togliermi le scarpe. Guardo all’insù; le nappe che formano la frangia del baldacchino sembrano scure e sporche di fuliggine proprio sopra il punto in cui sono seduto. Be’, si direbbe che non ci siano altri danni.

Arthur ha fatto portare agli altri domestici brocche e catini di acqua bollente, prodotta dall’onnivora stufa della cucina. Il camino della camera da letto viene riempito di legna, e mi accendono il fuoco. Faccio il bagno, da solo, finisco la mia toilette e poi mi vesto davanti al fuoco scoppiettante.

Dalla finestra, do un’occhiata agli altri nostri ospiti, fuggiti, scacciati dai campi e ammassati sul nostro prato con tende e animali; la semplice scelta del luogo dove accamparsi è una muta richiesta di protezione. C’era una cattedrale, in una città non molto distante, ma credo sia stata abbattuta a colpi di cannone qualche mese fa. Sarebbe stata un centro di attrazione più adatto, ma forse per coloro che si sono radunati qui il castello svolge la stessa funzione; la sua pietrosa esistenza nel corso degli anni è forse in sé un augurio di buona fortuna, un talismano che garantisce vita e pietà a chi gli sta vicino. Penso che sia un ottimo esempio di ciò che viene chiamato pio desiderio.

Procedo alla mia ispezione del castello. Tra gli uomini della luogotenente, si sono fermati qui quelli che hanno più bisogno di riposo: quelli che hanno subito ferite più gravi, e i due sotto shock bellico. Credo di dover parlare con qualcuno, e così provo a fare conversazione con un paio dei feriti, in quell’infermeria di fortuna che è diventato il nostro salone delle feste.

Uno è un uomo robusto, precocemente ingrigito, con una cicatrice che sembra vecchia di un anno, dentellata e non ancora guarita del tutto, sulla faccia; saltella su due grucce improvvisate, con una gamba ferita dalla mina che, una settimana fa, ha ucciso l’uomo che lo precedeva. L’altro è un giovane timido, con i capelli color sabbia, una carnagione pallida, una pelle bellissima. Ha un proiettile in una spalla, tutta fasciata e bendata; il suo petto è liscio e privo di peli. Sembra dolce, perfino seducente, anche per quest’aria di vulnerabilità ferita. Credo che, in altre circostanze, tutti e due avremmo potuto affezionarci a lui.

Faccio del mio meglio, ma in entrambi i casi c’è molta goffaggine, in me e in loro; l’uomo robusto è di volta in volta taciturno e garrulo — c’è in lui della rabbia, mi pare di capire, nei confronti di ciò che ai suoi occhi rappresento — mentre il ragazzo è semplicemente schivo e diffidente, e distoglie gli occhi ombreggiati da lunghe sopracciglia. Mi trovo più a mio agio con i domestici, nel condividere il loro tranquillo orrore e sincero divertimento davanti alla rozzezza dei soldati. Sembrano contenti del semplice fatto di essere di nuovo indaffarati, di essere tornati ai propri compiti: trovano sollievo nel servizio e nei doveri familiari. Osservo qualcosa sull’importanza di essere occupati che ottiene un’educata risposta di circostanza, più che un sincero apprezzamento.

Faccio una passeggiata nel prato. La gente dell’accampamento sembra taciturna come i soldati. Molti di loro sono malati; mi dicono che ieri è morto un bambino. Incontro la moglie del fattore del villaggio che alimenta un fuoco vicino a una tenda; abbiamo visto suo marito l’altro ieri sulla strada, quando la luogotenente ci ha intercettati. Vivono entrambi qui, adesso. Lui se n’è andato con gli uomini abili dell’accampamento in cerca di altro cibo, nella speranza di saccheggiare fattorie già depredate molte volte.

Sento di dover fare qualcosa di positivo, di dinamico; dovrei organizzare la mia fuga, cercare di corrompere i soldati ancora al castello, adoperarmi per suscitare la resistenza dei domestici o far sollevare la gente dell’accampamento… Ma credo di non avere il carattere richiesto da tali atti eroici. Le mie doti vanno in altre direzioni. Se per lottare e mantenere il comando bastassero pochi commenti acuminati, mi getterei subito nell’azione e ne uscirei vittorioso. In verità, vedo troppe opzioni e possibilità, deduzioni e controdeduzioni, obiezioni e alternative. Perso nel labirinto di specchi del potenziale tattico, vedo tutto e nulla, e perdo la strada fra i riflessi. Uomini d’acciaio scoprono che la propria anima è contaminata, la determinazione corrosa in presenza di un eccesso di ironia.

Mi ritiro nel castello, mi arrampico sulla merlatura, accanto alla torre — la stessa in cui sono stato imprigionato la notte scorsa — ed esamino il trio impiccato lassù. Ondeggiano nella brezza umida, con le uniformi che sbattono. I cappucci scuri che coprono le loro teste, me ne accorgo adesso, sono federe di seta nera su cui spesso abbiamo posato il capo. Il tessuto bagnato aderisce ai loro tratti, trasformando i volti in sculture d’ebano. Due di loro, con le mani legate dietro la schiena, hanno il mento puntato sul petto, come se guardassero incupiti il fossato. La testa del terzo uomo è gettata all’indietro, e le sue mani stringono la corda all’altezza del collo, con le dita premute fra la corda e la pelle illividita; una gamba è tirata all’insù verso il dorso, la schiena è inarcata e l’intero corpo è immobilizzato nell’ultima, disperata tensione dell’agonia. Dietro la seta nera, i suoi occhi sembrano aperti, fissi sul cielo, accusatori.

Sembra tutto così ingiusto: il loro delitto è stato quello di saccheggiare brevemente un edificio abbandonato dai suoi proprietari, senza immaginarsi di incorrere nella furia vendicatrice della luogotenente. Lei sostiene che è una questione di principio, che lo scopo è quello di dare l’esempio, che la spietatezza iniziale ha il fine di rendere possibile un regime più moderato.

Sopra di loro, sul pennone, la vecchia pelle della tigre artica si increspa nel vento. Le due zampe posteriori sono state crudelmente legate alla corda, e la pelle logora sembra assottigliarsi in alcuni punti, è intrisa della pioggia che ci ha visitato negli ultimi giorni e che ancora flagella in lontananza la pianura, e comunque è troppo pesante per l’uso a cui gli uomini della luogotenente hanno voluto assoggettarla. Una brezza più sostenuta la solleverebbe a fatica, un vento deciso la farebbe sbattere e veleggiare, ma basterebbe qualcosa di più potente — una raffica come si deve — e ho il sospetto che abbatterebbe anche il pennone.

È una fine ignominiosa per questo antico cimelio di famiglia, ma come avrebbe altrimenti finito i suoi giorni? Gettata in un letamaio, bruciata in un falò? Forse questa è una morte più appropriata.

Si torce nella brezza, e lascia cadere qualche goccia della pioggia che l’ha intrisa sui corpi appesi sotto di lei.

Il freddo ha fatto sì che i trofei della luogotenente non abbiano ancora cominciato a puzzare. Li lascio insieme alla bandiera di pelliccia alla loro fissa contemplazione di tutte le cose pendule e incombenti e cammino sulla compatta sommità del castello.

Da queste valorose merlature, in compagnia di un falcone scelto con cura, un tempo lasciavo volare liberamente il mio spirito. Appollaiato su questa gruccia di pietra, io, come le prede che i rapaci afferravano, venivo artigliato da loro e per mezzo di quei lucenti carnivori, rapidi artigiani della morte, sentivo di condividere la loro feroce e alata destrezza e vedevo, nel vertiginoso istante di mortalità al termine della picchiata, una sorta di effimera persistenza. Ecco le antiche regole, scritte nel cielo con scura determinazione, in linee curve di volo planato, negli scarti terrorizzati e nelle picchiate, nei disperati allunghi, tuffi, scatti del bersaglio, a cui rispondono all’istante gli strappi e le virate del falco che insegue, sempre più vicino. Ecco la violenta, improvvisa congiunzione — talvolta, se erano abbastanza vicini, si sentiva il colpo sordo degli artigli che affondano nella carne — la nuvoletta di piume sospesa nell’aria, poi la lunga caduta a spirale, mentre le ali del predatore cercano di riacquistare portanza, mentre la preda, che si dimena appena o è ormai abbandonata, sbatte anch’essa le ali, e l’insieme, questa binaria creatura alata — una morta o moribonda, l’altra più viva che mai, quasi trasfusa dall’altrui vita — quei gemelli uniti dalla morte, nella presa di tendini e artigli, roteano attorno all’asse comune precipitando insieme, con le piume gocciolanti, e mentre la preda esala gli ultimi lamenti, cadono finalmente al suolo, sul prato, nel bosco.

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