Iain Banks - Canto di pietra

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Canto di pietra: краткое содержание, описание и аннотация

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In un mondo senza tempo e senza nome, devastato da una guerra che ha rivelato il fondo barbarico della natura umana, tra cumuli di macerie e colonne di profughi in fuga, si erge un antico castello di pietra. Tra le sue austere mura vive, assieme alla sorella-amante Morgan, Abel, l’ultimo discendente di una famiglia aristocratica. Per i due giovani, quel castello sarebbe un rifugio ideale, se un giorno, a turbare la loro idilliaca «intimità», non sopraggiungesse una banda di soldati irregolari, guidati da un oscuro personaggio femminile. Stregati dal fascino magnetico e perverso di quella donna senza volto e senza anima, Abel e Morgan si trasformano ben presto nelle pedine di un sordido gioco a tre, mentre l’antica dimora diviene teatro di inaudite violenze, eccessi e distruzioni, che porteranno in un crescendo di tensione e di suspense alla catastrofe finale.

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È forse possibile cogliere un tale errore, riflesso ed esagerato, nello specchio deformante delle nostre presenti difficoltà. Oggi posso solo rammaricarmene, ma non mi è mai importato molto della politica, che ho sempre considerato una materia da disprezzare a ragion veduta, ed è probabile dunque che qui possa parlare con minore autorità che in altri campi, ma mi sembra che il conflitto che adesso ci circonda sia almeno in parte sorto a causa di una simile mancanza di considerazione.

Ci sono tensioni fra gli stati, i popoli, le razze, le caste e le classi che ogni singolo attore — sia esso un individuo o un gruppo — semplicemente trascura, o dà per scontate, o cerca di manipolare a proprio vantaggio, mettendo però in tal modo a repentaglio la propria esistenza e tutto ciò che ha di più caro. Farlo con cognizione di causa significa essere temerari; farlo inconsapevolmente equivale a proclamare apertamente la propria assoluta idiozia.

Quante tragedie senza scopo, quante lotte mortali e guerre sanguinose sono cominciate per la ricerca di un minimo profitto, per una minima acquisizione territoriale, per minime concessioni e ammissioni, per diventare poi — a causa di impuntature, di un orgoglio traboccante e di azioni imposte da un ipocrita senso della giustizia — un orrore generalizzato che in breve tempo rade al suolo l’edificio che i contendenti volevano solo ritoccare?

Il vecchio Arthur se ne sta seduto ad ansimare nella nube di polvere che lui stesso ha sollevato. Noto all’improvviso che è straordinariamente invecchiato nel corso degli ultimi mesi. Certo, è comunque vecchio; è di gran lunga il più venerabile dei nostri dipendenti, e immagino che quando ci avviciniamo alla tomba i gradini diventino sempre più ripidi. È stato l’unico a scegliere di fermarsi al castello invece di venire con noi e confidare nelle strade e nel supposto anonimato dei profughi. Noi capivamo le sue ragioni, e non abbiamo fatto troppi sforzi per fargli cambiare idea; la strada prometteva solo lunghe privazioni, mentre il castello, occupato da altri, gli offriva sempre la possibilità di trarre vantaggio dagli ultimi residui di rispetto che i giovani guerrieri potevano ancora dimostrare a vecchi innocenti; alla peggio, poteva contare forse su una rapida fine.

Arthur starnutisce. «Chiedo scusa, signore.»

«I nostri ospiti vi trattano bene?»

«Me, signore?» Il vecchio sembra confuso.

«Te e gli altri domestici; i soldati vi trattano in maniera decorosa?»

«Ah.» Fissa il fazzoletto, poi si soffia il naso. «Sì, signore, abbastanza. Anche se, in effetti, tendono a fare un gran disordine.»

«Credo che abbiano vissuto all’aperto, o in posti in rovina, per troppo tempo.»

«Dal momento che sono stati loro e quelli come loro a mandare in rovina tutto quanto, signore», dice sporgendosi in avanti e abbassando la voce, «può darsi che la rovina sia il loro ambiente naturale!» Si appoggia di nuovo allo schienale, annuendo, ma con un’aria preoccupata, come se non volesse prendersi tutta la responsabilità di ciò che le sue labbra avevano appena detto.

«Un’osservazione acuta, Arthur», gli dico divertito. Appoggio i piedi sul pavimento e mi metto a sedere sul letto. Prendo un bicchiere di latte tiepido dal vassoio. C’è pane tostato, un uovo, una mela, qualche marmellata e una caraffa di caffè, che ha un sapore stantio (è molto tempo che è ospitato nella dispensa) ma è sempre ben accetto.

«Lo sa, signore», dice Arthur scuotendo la testa. «Uno di loro dorme ogni notte fuori dalla porta della luogotenente, come un cane! È quello con i capelli rossi, Karma ho sentito che lo chiamano, o un nome buffo del genere. L’ho visto stanotte, sdraiato sull’entrata con addosso una coperta e basta. A quanto pare fa sempre così, in qualunque posto lei decide di dormire; ai suoi piedi se sono accampati all’aperto, signore; ai suoi piedi, proprio come un cane!»

«Encomiabile», dico, finendo il latte. «E poi dicono che al giorno d’oggi non si trovano più servitori affidabili, eh?»

«Devo andare a prenderle dei vestiti puliti, signore?» chiede Arthur, che ha ripreso il suo solito tono professionale. «Ce ne sono ancora in lavanderia.»

«Dovrei prima lavarmi», gli dico mentre scelgo una fetta di pane; alcune sono quasi bianche, altre troppo tostate, ma bisognerà abituarsi a simili privazioni, immagino. «C’è acqua calda?»

«Farò in modo di sì, signore. Vuole fare un bagno nelle sue stanze?»

Mi strofino la faccia, ancora unta dopo la giornata di ieri e la notte. «Ne ho il permesso?» gli chiedo. «La nostra brava luogotenente considera scontata la mia pena?»

«Credo di sì, signore; prima di andarsene mi ha detto di portarle la colazione e di lasciarla uscire.» I suoi occhi si spalancano non appena si rende conto di quello che ho appena detto. « Punirla , signore? Punire lei? Che diritto ha di fare una cosa del genere?» Sembra indignato. È da quando ero bambino, e lo tormentavo, che non lo sentivo alzare la voce in quel modo. «Che… ma… che diritto…? E come ha fatto lei, in… in… in… casa sua, lasciare che quella donna…?»

«Ho lasciato cadere una sacca piena di cose che non si potevano mangiare», gli dico, nel tentativo di calmarlo. «Ma hai detto ‘prima di andarsene’. Dov’è andata?»

Arthur rimane seduto ancora per qualche secondo con una smorfia di disapprovazione, poi si scuote. «Io… Oh, non so, signore; se ne sono andati. Credo che qui ce ne siano ancora una mezza dozzina, mentre gli altri, quelli che si è portata dietro la luogotenente, sono usciti all’alba. Ne sono rimasti pochi. In cerca di materiale, quelli che se ne sono andati, cioè, ha detto uno, mi pare, ma mi potrei sbagliare, signore; il mio udito…» Arthur scuote la testa, e si porta vicino a un orecchio le dita secche e tremanti.

«E la signora? È fuori anche lei?» gli chiedo sorridendo.

«Fuori, con loro, signore», dice il vecchio domestico, con un’espressione preoccupata. «La luogotenente… si è portata dietro anche lei, come guida, a quanto pare.»

Uso il coltellino da frutta per la mela, e resto in silenzio per un po’. «Davvero?» dico alla fine, premendomi le labbra con un tovagliolo, pulito ma, ahimè, non stirato. «E hanno detto quando pensavano di tornare?»

«Gliel’ho chiesto, signore», dice Arthur scuotendo la testa. «La luogotenente ha detto solo ‘Per tempo’. È tutto quello che sono riuscito a tirarle fuori.»

«Già», borbotto. «E probabilmente non più di quello che si potrebbe metterle dentro.»

«Chiedo scusa, signore?»

«Niente, Arthur», gli dico, lasciando che mi versi una tazza di caffè. «Preparami il bagno, d’accordo? E se riuscissi a procurarmi dei vestiti…»

«Certo, signore.» Se ne va e mi lascia immerso nei miei pensieri.

Fuori, con te. Una guida; bella guida, non c’è che dire. Tu, che ti perderesti fra due stanze affiancate, tu, che scambieresti due siepi per un labirinto. Se la luogotenente non ha carte geografiche — o qualcuno dei suoi uomini un po’ di senso dell’orientamento — può darsi benissimo che non riveda più né te né loro. La luogotenente voleva scherzare, credo. Tu potresti essere una mascotte o un trofeo per compensarla delle inutili prede che ieri ho consegnato alle acque, ma non certo, ne sono convinto, una vera guida.

Ma ti ha portato via da me. Provo una sorta di gelosia, direi. Che strano sentimento, considerando tutto quello che abbiamo condiviso, o disseminato, si potrebbe anche dire. Potrei perfino aver voglia di assaporare questo aroma così poco familiare, o quanto meno sciacquarmene la bocca prima di sputarlo fuori, ma l’ho sempre considerata un’emozione ignobile, una confessione di debolezza morale.

Mi sento ridimensionato da lei, così vicina a te. Ho paura di considerare la mia stessa seduzione con il moralismo volgare e facile che ho sommamente disprezzato negli altri.

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