Il tuo sonno è sempre stato più profondo: ho visto spesso il tuo lento risveglio richiedere più del canto di un gallo. Oggi però la sveglia la suona qualcosa capace di volare che, per fortuna, non trova la sua voce.
Un frastuono improvviso e invadente percorre il tetto del castello, i piani, le mura e la nostra camera e scuote ogni cosa con violenza. Fa vibrare le pietre del castello come bandiere sfilacciate e libera la polvere e noi, che in un tumulto mulinante ci troviamo in mezzo alla sua nuvola, persi nella confusione delle particelle turbinanti.
Una granata, un unico colpo fortunato che ha colto il castello e l’ha colpito in pieno, percorrendolo dall’alto in basso, lasciando una scia violenta di polvere di pietra, legno scheggiato e panico. Ma senza climax: si ferma tra il pianterreno e gli scantinati, inesplosa.
Devo rassicurarti mentre singhiozzi, e mi riduco, a causa di quest’intrusione inaspettata, a batterti dolcemente sulla schiena e a mormorare frasi vuote e scontate. Osservo la foschia secca di polvere soffocante che il passaggio della granata ha diffuso su di noi, mentre una doccia arida di detriti picchietta dal buco nel soffitto sul pavimento, poi mi allontano calmo e sorridente da te e con un fazzoletto premuto sul naso, diradando con la mano la nuvola bianca, vado a ispezionare l’angolo distrutto della mia stanza. C’è un buco in alto, e tra la polvere si intravede la luce del giorno. La parte superiore della parete è stata distrutta per un largo semicerchio, come se fosse stata morsicata da un gigante, e consente la vista di uno spazio buio della camera accanto. Dovrebbe essere un vecchio ripostiglio, pieno di mobili fino al soffitto, se non ricordo male. Al di là c’è la grande suite per gli ospiti, che la luogotenente ha chiesto per sé.
Mi arrampico sul fianco di un elegante armadio — risparmiato per un palmo dal passaggio della granata — e mi chino nelle ombre del lato opposto del muro. Mentre mi allungo in avanti e tendo le mani, oltre il legno infranto e annerito dagli anni, distinguo uno strano odore chimico: un odore dell’infanzia che associo ai vestiti, alle feste, ai nascondigli. Vedo luccicare qualcosa di metallico e allungo la mano. Naftalina: è odore di naftalina, mi viene in mente all’improvviso.
La mia mano si chiude attorno a una gruccia. La levo dalla sbarra nel guardaroba bucherellato che sta nella stanza buia, poi la getto all’indietro e scendo dall’armadio. Ai miei piedi, un altro buco conduce, attraverso il mosaico di legno, travi e gesso del pavimento, nella sala da pranzo piena di polvere. Dal buco vengono grida, e il suono di piedi che corrono.
Raggiungo le finestre e le apro sulla luce del giorno, chiudendomi le tende alle spalle. Fuori regna una curiosa pace: un altro giorno come tanti, con la nebbia e un sole basso e acquoso. Nei boschi cantano gli uccelli. «Cosa stai facendo?» mugoli dal letto. «Ho freddo!»
Mi sporgo a guardare il cielo — sto ancora pensando che potremmo essere stati colpiti da una bomba più che da una granata — e poi verso le colline e la pianura. «Credo che sia più sicuro lasciare le finestre aperte, nel caso che veniamo bombardati», ti spiego. «Se vuoi, forse la cosa migliore sarebbe mettersi sotto il letto.» Cerco i miei vestiti, ma li avevo lasciati su una sedia che stava esattamente nel punto da cui è passato il nostro piccolo ospite. Sul pavimento, accanto al buco, vedo qualche pezzetto carbonizzato della sedia e un paio di bottoni della mia giacca. Mi avvolgo in un lenzuolo bianco, vuoto le scarpe dalla polvere e me le infilo, poi mi vedo allo specchio e mi libero con un calcio delle scarpe. Scendo incontro agli altri, immaginando di seguire il percorso della granata attraverso il castello.
Nel salone al piano di sotto gli uomini della luogotenente corrono e gridano, afferrando un’arma o le mutande. A un sibilo smorzato oltre le mura tutti ci pieghiamo o ci gettiamo a terra. Segue una specie di tonfo equivoco, qualcosa che né le orecchie né i piedi vogliono assumersi la piena responsabilità di percepire, una conclusione a cui sarebbe potuto giungere il cervello da solo. Ci alziamo, e io continuo ad avanzare.
Nella sala da pranzo, le cui generose profondità sono dilatate dalla polvere che la riempie, due soldati agitano le braccia sopra un buco sul pavimento che deve condurre in cucina o in cantina. Sopra, il tetto bucherellato lascia cadere una pioggia granulosa. Da uno squarcio nel soffitto pende un pezzo di tubo, ondeggiando; acqua bollente zampilla come da un geyser, inondando il tavolo e il tappeto centrale, mentre il vapore contende il primato al peso della polvere che cade a spirale. Le tende, travolte da un pezzo del fregio del soffitto, sono stese sul pavimento, lasciando così entrare la luce che si riflette sui granelli di polvere e sul vapore. Mi immobilizzo per un istante, costretto ad ammirare questo fantastico scompiglio.
Mentre mi avvicino ai due soldati e al buco, un rumore lacerante, frammisto a un urlo disumano e morente, squarcia il cielo sopra di noi; i due irregolari si gettano a terra, e dopo il tonfo si solleva altra polvere. Io resto in piedi a guardarli. Questa volta c’è un’esplosione: il suono deflagra in lontananza, fa tremare le assi sotto i piedi e scuote i vetri come le raffiche di una tormenta. Corro alla finestra mentre gli uomini della luogotenente si rimettono in piedi. Guardo fuori ma non riesco a vedere niente: solo il solito cielo calmo.
Do un’occhiata nel buco accanto al quale sono adesso inginocchiati i soldati, poi mi dirigo verso il corridoio, in punta di piedi, attraverso una pozza di acqua calda.
«Già un fantasma?» dice la voce della luogotenente. Mi volto ed eccola lì, spettinata, con gli stivali che rimbombano sulle scale mentre scende i gradini due a due, si infila la giacca, spinge i lembi di una pesante camicia verde dentro i pantaloni della mimetica, si assicura la fondina con la pistola. Ha un’aria stanca, come se si fosse appena risvegliata dalle profondità del sonno, eppure sembra ancora più esperta e padrona delle circostanze, come se tutto questo caos non sia servito ad altro che a far bollire l’acqua in eccesso nel suo spirito, lasciandola ancora più concentrata.
«Mister Taglio!» grida, guardando oltre me, al suo vice appena comparso all’altra estremità del salone. «Fissato è di guardia? Manda su anche Morte e Poppy; vedi un po’ se riescono a capire da dove viene questa roba. Digli di stare giù con la testa e di controllare anche il parco, nel caso sia fuoco di copertura. E chiama Fantasma alla radio; cerca di sapere se riesce a vedere qualcosa dalla portineria.» Sporge la testa attraverso la porta per guardare nella sala da pranzo. «Doppel!» chiama. «Sistema quella perdita; prendi uno dei domestici e fatti dire dove sono i rubinetti generali.» Si fa vento davanti alla faccia per allontanare la polvere, poi starnutisce, e per un brevissimo istante sembra una ragazzina, una figura insieme dura e delicata in questa nebbia caotica, scossa dalla forza del castello.
«Oh, signore!» Rolans, uno dei più giovani tra i nostri domestici, un ragazzo pallido, goffo, grassoccio, viene di corsa da me, dimenandosi per infilarsi la giacca. «Signore, cosa…?»
«Tu andrai benissimo», dice la luogotenente, prendendo il ragazzo per il polso. Lo spinge verso il soldato che sta uscendo dalla sala da pranzo. «Ecco qui, Doppel; avanti con i lavori idraulici.»
Il soldato chiamato Doppel grugnisce. Rolans mi guarda; io gli faccio cenno di sì. I due si allontanano lungo il corridoio, e le loro facce imbiancate spiccano come distintivi nell’oscurità mattutina. Il fumo disseccato che è la polvere della pietra e del gesso si leva attorno a loro, e contamina tutti noi — mentre ci muoviamo e respiriamo all’interno di questa onnipresente superficie — con l’infezione che si spande dal castello assalito, e ci trasforma tutti in quasi-fantasmi, e rende me, con la mia bianca uniforme, maliziosamente archetipico.
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