Iain Banks - Canto di pietra

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In un mondo senza tempo e senza nome, devastato da una guerra che ha rivelato il fondo barbarico della natura umana, tra cumuli di macerie e colonne di profughi in fuga, si erge un antico castello di pietra. Tra le sue austere mura vive, assieme alla sorella-amante Morgan, Abel, l’ultimo discendente di una famiglia aristocratica. Per i due giovani, quel castello sarebbe un rifugio ideale, se un giorno, a turbare la loro idilliaca «intimità», non sopraggiungesse una banda di soldati irregolari, guidati da un oscuro personaggio femminile. Stregati dal fascino magnetico e perverso di quella donna senza volto e senza anima, Abel e Morgan si trasformano ben presto nelle pedine di un sordido gioco a tre, mentre l’antica dimora diviene teatro di inaudite violenze, eccessi e distruzioni, che porteranno in un crescendo di tensione e di suspense alla catastrofe finale.

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E per di più, potrei combinare un pasticcio.

Accanto alla testa della luogotenente c’è un atlante, vecchio e pesante, aperto anch’esso sulle nostre zone. Ne sollevo uno dei due lati e lo lascio cadere. Il tonfo, piatto e risonante, la sveglia. Si strofina gli occhi e si stira, appoggiandosi allo schienale scricchiolante e, senza pensarci, posando gli stivali accanto alla mappa. Non sono stivali militari, e non sono nemmeno quelli che indossava la prima volta che l’abbiamo incontrata; sono alti stivali da cavallerizzo, di cuoio morbido e lucido, appena consunti ma ancora buoni. Sembrano un vecchio paio dei miei, gli ultimi che ho abbandonato perché divenuti troppo piccoli; altri due profughi strappati al nostro passato, esumati senza alcun dubbio da qualche vecchia credenza, da un ripostiglio, da una stanza chiusa da tempo. Osservo piccoli grumi di fango che si staccano dalle suole e cadono sulla mappa. «Ah, Abel», dice la luogotenente mentre io cerco un’altra sedia e mi siedo di fronte a lei. Senza eleganza nella veglia come nel sonno, si gratta un orecchio con un dito, osserva la punta sporca di cerume, poi guarda l’orologio e corruga la fronte. «Meglio tardi che mai.»

«Il ritardo non è tutta colpa mia: è appena morto il nostro domestico più anziano.»

Ha un’aria interessata. «Come, il vecchio Arthur? Cosa gli è successo?»

«La granata è passata attraverso la sua camera. Non era ferito, ma credo che il cuore abbia ceduto.»

«Mi dispiace», dice, togliendo gli stivali dal tavolo. La fronte è sempre corrugata, ma adesso ha un’aria preoccupata, perfino partecipe. «Immagino che fosse qui da molto tempo.»

«Era già qui quando sono nato io», le dico.

Fa uno strano verso con la bocca. «Avevo creduto che l’avessimo scampata tutti senza danni. Maledizione.» Scuote la testa.

Comincio a provare una violenta irritazione per questa partecipazione, per questo apparente dolore. Se c’è qualcuno che dovrebbe essere addolorato, non potrei essere che io: lui era il mio domestico e lei non ha nessun diritto di assumere il mio ruolo, anche se ho deciso di non interpretarlo fino in fondo; io ho il diritto di recitare senza troppa enfasi, ma lei non può permettersi di imparare la mia parte per sostituirmi.

«Invece no: di danni ne abbiamo subiti», dico bruscamente. «Sono sicuro che tutti lo rimpiangeremo», aggiungo. (Chi mi porterà la colazione, d’ora in poi?)

Lei annuisce con aria pensosa. «C’è qualcuno che dovremmo cercare di avvertire?»

Non ci avevo nemmeno pensato. Faccio un rapido gesto con la mano. «Credo che avesse qualche parente, ma vivono dall’altra parte della nazione.» La luogotenente annuisce di nuovo. Dall’altra parte della nazione: in queste circostanze è come dire sulla luna. «Di sicuro non aveva nessuno nelle vicinanze», le dico.

«Provvederò a farlo seppellire, se lo desidera.»

Mi viene in mente tutta una sfilza di battute, per replicare a quest’offerta, ma mi costringo a un cenno del capo e a un «Grazie».

«Allora.» Prende un respiro profondo, si alza, si slancia verso le finestre e apre le tende al cielo. «Queste mappe», dice, risistemandosi sulla poltrona.

Discutiamo la sua campagna in miniatura: vuole colpire nel pomeriggio, prima che faccia buio. Sembra una bella giornata, e senza un lusso come le previsioni del tempo, i soldati, come chiunque altro, sono ridotti a quella specie di sapienza meteorologica che ha guidato in modo apocrifo i pastori nel corso dei secoli; meglio attaccare finché si può, prima che arrivi la pioggia e trasformi l’operazione in un’impresa fradicia e letale. Cerco di essere d’aiuto come meglio posso. Correggo a matita le carte: traccio una nuova strada qui, costruisco lì un ponte con un paio di tratti, e con un’unica linea ininterrotta e qualche torsione del polso sbarro il corso di un fiume e riempio d’acqua un bacino. La luogotenente sembra apprezzare, annuisce e fa qualche inarticolato mormorio di approvazione mangiandosi un’unghia mentre esaminiamo la questione. Una nuova e curiosa sensazione di essere utile si insinua in me. Comprendo anche, con una sorprendente fitta di piacere, il significato di appartenere a una squadra come quella che la luogotenente ha ai propri ordini: ogni uomo dipende da piani come questo, ogni vita è legata alla capacità (o all’incapacità) del comandante di capire con precisione quale obiettivo si può chiedere di raggiungere. Che impresa collettiva, perfino conviviale, anche se potenzialmente umiliante e fatale; un tale spirito di corpo fa sembrare l’artificioso cameratismo della caccia un surrogato pallido e meschino.

Più tardi ci raggiunge il suo vice, Mister Taglio, e si siede con noi a esaminare le mappe e ad ascoltare le proposte della luogotenente. Mister Taglio sembra quasi alle soglie della vecchiaia, anche se non è abbastanza vecchio da poter essere il padre della luogotenente. È alto e magro, ha i capelli scuri brizzolati e porta occhiali dalla montatura sottile, posati in alto sullo stretto naso aquilino.

Adesso che ci penso, è l’unico fra gli uomini della luogotenente che non ha la barba (anche se in alcuni casi quella barba è poco più di una peluria giovanile). Anch’io l’anno scorso ho portato la barba, quando siamo rimasti senza elettricità. In quest’ultimo anno ho usato un antico rasoio a mano libera che Arthur aveva trovato in un ripostiglio, completo di pennello, bicchiere di metallo, specchietto, cote e coramella. Mi sorprendo a chiedermi se Mister Taglio abbia una provvista di lamette da barba, e se il suo soprannome non sia in qualche modo legato alle sue abitudini di rasatura.

Il tizio siede ingobbito e si concentra sulle mappe. Contribuisce con qualche grugnito e qualche suggerimento, in gran parte connessi alle sue pessimistiche previsioni sulla distanza che possono coprire i veicoli prima di finire il carburante.

A un certo punto vengo congedato, anche se con i ringraziamenti, a prima vista sinceri, della luogotenente. Mi sento escluso: mi viene sottratta la possibilità di assistere ai piani più dettagliati forse a causa del loro istintivo bisogno di mantenere segreti i preparativi, o forse perché la luogotenente si è convinta, sbagliando, che queste faccende militari potrebbero annoiarmi. Mi fermo alla porta della biblioteca, determinato.

«Siete a corto di carburante?» chiedo.

La luogotenente alza gli occhi e dà un’occhiata a Mister Taglio. «Be’, sì», dice, quasi divertita. «Più o meno come tutti, di questi tempi.»

«So dove potete trovarne», le dico.

«Dove?»

«Sotto la nostra carrozza, nelle stalle, sono stati legati alcuni fusti di benzina e di gasolio e uno di lubrificante.»

Mi fissa inarcando un sopracciglio.

«Pensavo di usarli come moneta di scambio», le spiego, rifiutando di assumere un’aria intimidita. «Qualcosa da barattare lungo la strada.» Aggrotto per un momento la fronte e faccio un gesto con la mano. «Ma vi prego, non fate complimenti.» Sorrido più graziosamente che posso.

La luogotenente fa un paio di sospiri. «Be’, è molto generoso da parte sua, Abel», dice. Stringe gli occhi al di sopra di un sorriso tirato. «C’è qualcosa d’altro che ha tenuto da parte e che potrebbe interessarci?»

«Non c’è nient’altro di nascosto», le dico, un po’ deluso dalla sua reazione. «Tutto quello che c’è nel castello e nel parco è a vostra disposizione, e sotto i vostri occhi. Non abbiamo armi né medicinali di cui non siate già a conoscenza, e lei ha lasciato a Morgan i suoi gioielli.»

La luogotenente annuisce. «Già», dice. Il sorriso diventa più disteso. «Bene, grazie per il suo contributo», dice. «Le dispiacerebbe chiedere a uno dei soldati di tirar fuori il carburante e portarlo ai camion?»

«Anzi», dico con un piccolo inchino, poi esco e mi richiudo la porta alle spalle, mentre mi percorre una strana sensazione di sollievo e insieme di esaltazione.

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