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Iain Banks: Canto di pietra

Здесь есть возможность читать онлайн «Iain Banks: Canto di pietra» весь текст электронной книги совершенно бесплатно (целиком полную версию). В некоторых случаях присутствует краткое содержание. Город: Parma, год выпуска: 1999, ISBN: 978-88-8246-095-2, издательство: Ugo Guanda, категория: Современная проза / на итальянском языке. Описание произведения, (предисловие) а так же отзывы посетителей доступны на портале. Библиотека «Либ Кат» — LibCat.ru создана для любителей полистать хорошую книжку и предлагает широкий выбор жанров:

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Iain Banks Canto di pietra

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In un mondo senza tempo e senza nome, devastato da una guerra che ha rivelato il fondo barbarico della natura umana, tra cumuli di macerie e colonne di profughi in fuga, si erge un antico castello di pietra. Tra le sue austere mura vive, assieme alla sorella-amante Morgan, Abel, l’ultimo discendente di una famiglia aristocratica. Per i due giovani, quel castello sarebbe un rifugio ideale, se un giorno, a turbare la loro idilliaca «intimità», non sopraggiungesse una banda di soldati irregolari, guidati da un oscuro personaggio femminile. Stregati dal fascino magnetico e perverso di quella donna senza volto e senza anima, Abel e Morgan si trasformano ben presto nelle pedine di un sordido gioco a tre, mentre l’antica dimora diviene teatro di inaudite violenze, eccessi e distruzioni, che porteranno in un crescendo di tensione e di suspense alla catastrofe finale.

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I miei pensieri in materia coincidevano perfettamente con quelli della mamma; erano l’immagine riflessa dei suoi, e rimasi un devoto discepolo fino a un giorno d’inizio primavera, all’età di nove anni. Ero solo nel bosco a nord del castello. Avevo litigato con la mamma e il precettore, e appena finite le lezioni della giornata mi ero precipitato fuori di casa, senza notare che da ovest avanzavano nubi cariche di pioggia. Il vento mi sorprese sotto gli alberi ancora spogli: un tumulto scosse le cime, e solo allora mi voltai per tornare al castello, stringendomi nel soprabito leggero, cercando nelle tasche i guanti che non c’erano. Poi venne la pioggia, un gelido fuoco di fila che oltrepassava i rami nudi, dove le prime gemme brillanti interrompevano la bruna monotonia della corteccia. Maledissi la mamma, e il mio precettore. Maledissi me stesso, per aver prestato così poca attenzione al tempo e per non essermi assicurato di avere berretto e guanti con me. Il soprabito — il più elegante che avevo, un’altra sciocchezza causata dalla rabbia e dalla fretta — continuava a impigliarsi nei rami mentre avanzavo verso casa. Le scarpe, lucide fino a risplendere, ormai erano graffiate e schizzate di terra. Maledissi gli alberi che mi ghermivano, l’intera foresta strepitante, le stesse colline, simili a enormi escrementi, e il cielo nero che vomitava pioggia (anche se i termini che usavo, va detto, avrebbero semplicemente fatto aggrottare le sopracciglia della mamma: credevo, come lei, nell’obbligo di non insozzare non solo la pelle ma anche la bocca).

Il sentiero scendeva lungo il fianco di una collina, sotto i tronchi alti e ondeggianti; era una strada tortuosa, comoda e in lieve pendenza, ma lunga. La pioggia, ormai furibonda, mi frustava le guance, mi incollava i capelli alla testa e cominciava a insinuarsi nel colletto, come un gelido millepiedi che mi strisciava sulla pelle. Gridai contro le colline incuranti, lo stolido tempo e la malasorte. Mi fermai sul ciglio del sentiero, guardai in basso e mi decisi a tagliare le curve e a precipitarmi giù per il pendio.

Scivolai due volte su uno strato di fango e foglie in decomposizione, e dovetti fare presa sul terreno fradicio e scivoloso per non rotolare ancora più in basso. Le mie dita sguazzavano nel fango freddo e nell’humus marcio dell’autunno precedente, gelido, bruno, simile a quello di una porcilaia; mi pulii alla meglio le mani sull’erba, lasciando chiazze nerastre. Il prezioso soprabito era sempre più pesante per via della pioggia, la sua superficie era scurita dalle gocce incessanti, l’eleganza di sartoria era sgualcita dalla pioggia battente che, era probabile, l’aveva rovinato per sempre.

In fondo all’itinerario che avevo scelto c’era un ripido argine e un fosso profondo che dovevo attraversare prima di raggiungere la strada; sbattei gli occhi per liberarli dall’acqua che mi scorreva sul viso, e guardai a destra e a sinistra, in cerca di un passaggio più comodo, ma argine e fosso proseguivano in entrambe le direzioni e non c’erano scorciatoie. Decisi di spiccare un salto, ma anche se presi una breve rincorsa, l’argine cedette sotto di me e mi fece rotolare a braccia aperte giù per la riva fangosa. Urtai contro grosse radici sporgenti e fui sbalzato dall’altra parte, atterrando sulla schiena contro l’altro argine. Il colpo mi tolse il respiro, picchiai la testa contro una pietra, e poi, disorientato, col fiato mozzo e le vertigini, non potei fare a meno di rimbalzare, cadendo in avanti, nelle scure e luride profondità del fosso.

Mi ritrovai sdraiato con le mani strette alla terra sulle due rive e la faccia piantata nel fango rancido. Liberai la testa della stretta soffocante della terra e cercai di espellere il fango dalla bocca e dal naso, scosso da conati di vomito mentre sputavo e soffiavo fuori il suo muco denso e freddo. Cercai di respirare, inghiottendo aria fra gli sputi e tentando di costringere i polmoni a funzionare, mentre un orribile vuoto che non riuscivo a riempire mi si insediava nel petto, prendendosi gioco di me.

Mi girai, sempre ansimando, e pensai con terrore che avrei potuto morire lì, soffocato in mezzo ai gelidi escrementi di quei boschi; forse mi ero rotto qualcosa; forse quella tremenda impossibilità di respirare era solo l’inizio di una paralisi progressiva.

La pioggia continuava a sferzarmi. Mi ripulì un po’ la faccia, ma la nuca e la schiena erano sprofondate nel fango e avevo le scarpe piene di un’acqua ghiacciata e lurida. Continuavo a rantolare in cerca d’aria. Presi a vedere strane luci sopra di me, fra gli alberi, mentre nell’insieme mi si oscurava la vista, e l’aria mi gridava addosso un’oscena ninna nanna, presaga di morte.

Riuscii a mettermi seduto, mi inginocchiai, mi misi carponi per tossire ancora una volta, e finalmente riuscii a spingere fino ai polmoni un po’ d’aria carica di saliva. Fui assalito da altri conati di vomito, sputai e fissai la nera colla di terra e foglie decomposte che mi scorreva attorno alle mani. Il liquame prese a salire e a ricoprirle, finché non si vedevano che i polsi pallidi, che spiccavano sul fluido nero e fangoso, mentre sotto la superficie schiumosa le mie mani impastavano il fango tiepido e cedevole, che all’improvviso mi sembrò carne.

Tossii un’altra volta, starnutii, e osservai i lunghi filamenti glutinosi che mi pendevano dalla bocca e dal naso e mi tenevano legato alla terra, finché non li spezzai con una mano.

Presi a respirare più facilmente e poi, ormai sicuro che non sarei morto e che non avevo nessuna grave ferita, mi guardai in giro. Fissai le gocce battenti che schizzavano tutt’intorno, la curva lucida e gonfia della riva del fosso, segnata da un bordo fradicio di erba pesante e piegata, gli alberi scuri che torreggiavano imperiosi sopra di me, i trasparenti veli di pioggia che spazzavano la foresta, i rivoli setosi dell’acqua che scorreva su radici lucenti simili a membra, sporgenti dalla riva dell’argine, e che stillava sulla strada come un aspro, gelido sudore della terra.

Per qualche motivo cominciai a ridere. Questo mi fece tossire di nuovo, ma non m’importava; ridevo e piangevo e scuotevo la testa e poi mi lasciai cadere in avanti nel fango nerastro, arrendendomi a esso, muovendomi come per nuotare nel suo abbraccio glutinoso mentre cercavo di impadronirmene, di stringerlo fra le dita, di riempirmene la bocca, di spalmarmelo sulla faccia, di berlo. Presi a spogliarmi dei vestiti fradici, dimenandomi goffamente, gettandoli lontano, per metà esasperato, per metà incitato dalla loro appiccicosa resistenza, finché non fui nudo nel pantano gelido, e mi ci rotolai come un cane nello sterco, intirizzito, felice e mugolante, e mi spalmai quella melma su tutto il corpo, così eccitato dalla sua carezza vischiosa che il freddo e l’umidità vennero sconfitti dal calore che sorgeva dentro di me, e poco dopo mi inginocchiai sul fondo del fosso, ricoperto di strisce di fango e — per la prima volta in vita mia — mi masturbai.

Non ci fu emissione, il suolo restò intatto e in quel momento non mi unii fino in fondo alla terra, ma dopo quell’orgasmo secco e feroce, e con quella tiepida incandescenza che mi avvolgeva le cosce e risuonava ancora dentro di me, mi rivestii, tremando, e maledissi i vestiti umidi, granulosi, così poco cooperativi. Adesso le mie maledizioni erano più fiorite; usavo il linguaggio di alcuni giardinieri che avevo ascoltato per caso mesi prima, come se i loro innesti solo allora avessero attecchito nella mia anima, e sbocciassero in una bocca ormai davvero insozzata.

La pioggia era quasi cessata quando arrivai al castello; accettai le attenzioni dei domestici, i gentili strilli e l’indaffarata simpatia di nostra madre e mi immersi con piacere nel bagno fumante, nei morbidi asciugamani, nella nuvola di talco profumato e di acqua di colonia, poi mi lasciai vestire con abiti puliti e inamidati, ma ormai indossavo qualcosa d’altro, qualcosa che adesso faceva parte di me, come l’acqua terrosa che avevo inghiottito nel fosso e che si stava lentamente facendo strada nel mio corpo, diventando, almeno in parte, parte di me.

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