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Iain Banks: Canto di pietra

Здесь есть возможность читать онлайн «Iain Banks: Canto di pietra» весь текст электронной книги совершенно бесплатно (целиком полную версию). В некоторых случаях присутствует краткое содержание. Город: Parma, год выпуска: 1999, ISBN: 978-88-8246-095-2, издательство: Ugo Guanda, категория: Современная проза / на итальянском языке. Описание произведения, (предисловие) а так же отзывы посетителей доступны на портале. Библиотека «Либ Кат» — LibCat.ru создана для любителей полистать хорошую книжку и предлагает широкий выбор жанров:

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Iain Banks Canto di pietra

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In un mondo senza tempo e senza nome, devastato da una guerra che ha rivelato il fondo barbarico della natura umana, tra cumuli di macerie e colonne di profughi in fuga, si erge un antico castello di pietra. Tra le sue austere mura vive, assieme alla sorella-amante Morgan, Abel, l’ultimo discendente di una famiglia aristocratica. Per i due giovani, quel castello sarebbe un rifugio ideale, se un giorno, a turbare la loro idilliaca «intimità», non sopraggiungesse una banda di soldati irregolari, guidati da un oscuro personaggio femminile. Stregati dal fascino magnetico e perverso di quella donna senza volto e senza anima, Abel e Morgan si trasformano ben presto nelle pedine di un sordido gioco a tre, mentre l’antica dimora diviene teatro di inaudite violenze, eccessi e distruzioni, che porteranno in un crescendo di tensione e di suspense alla catastrofe finale.

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Fango, melma, lordura, suolo: la terra in sé, in tutta la sua viscida, scatologica rudezza, poteva essere una fonte di piacere. C’era un’estasi nel lasciarsi andare, e un valore nella continenza al di là della sua propria ricompensa. Tenere le distanze, restare incontaminato, mantenere un certo distacco dal terreno sconsacrato della vita poteva rendere l’abbraccio ultimo, la finale presa di possesso di quella qualità fondamentale, uno dei piaceri più dolci e preziosi, addirittura una delle più acute beatitudini.

Credo che da quel giorno anche la mamma mi considerasse con occhi diversi. Io so che mi sentivo diverso rispetto al ragazzo che era uscito per quella passeggiata. Cercai di rimanere beneducato e cortese come avrebbe desiderato la mamma quando ero in sua compagnia, o con coloro che potevano incarnare, grazie ai buoni o cattivi rendiconti, una presenza vicaria, ma nel fondo dell’animo sapevo di essere una creatura nuova e sagace, provvista di una certa sapienza, e non più solo una cosa di sua proprietà. In futuro lei non avrebbe più potuto offrirmi consigli, né censure, né regole, e nemmeno amore, senza che tutto ciò venisse confrontato con l’esperienza del gusto di una capitolazione vile e sfacciata che avevo scoperto dentro di me, nel mezzo della forza impregnante di diluvio, discesa e caduta.

CINQUE

Nel pomeriggio andiamo a caccia. Per la maggior parte gli uomini della luogotenente si curano le ferite o dormono; alcuni vanno in ricognizione lì vicino. I nostri domestici hanno cominciato a pulire il castello: spolverano sotto l’occasionale foro di proiettile, mettono in ordine dopo il passaggio dei soldati, lavano e asciugano. Solo il trio degli sciacalli impiccati non può godere delle loro attenzioni; la luogotenente vuole che restino dove sono, in qualità di avviso e memento. Intanto l’accampamento di sfollati sui nostri prati è tornato a riempirsi; la gente che proviene da fattorie e villaggi bruciati si ripara fra i gazebo e i padiglioni, pianta tende sul campo da croquet e attinge agli stagni ornamentali; le nostre trote fanno la stessa fine dei pavoni della sera prima. Qualche fuoco in più viene acceso fuori delle tende e delle baracche di fortuna, e all’improvviso, in mezzo alla nostra aristocratica proprietà, spunta un barrio, una favela, il nostro piccolo ghetto. I soldati hanno già perquisito l’accampamento: in cerca di armi, a loro dire, ma per trovare quello che hanno subito stabilito essere un’inaccettabile eccesso di cibo e qualche bottiglia il cui contenuto non sarebbe dovuto finire nelle gole sbagliate.

La giornata è quasi calda, mentre marciamo verso le colline, sotto nuvole calme e lente. La luogotenente ha mandato avanti me; lei mi segue insieme a te. La retroguardia è composta da due suoi uomini che imbracciano le loro carabine e portano la pesante sacca di tela dei fucili da caccia.

La luogotenente continua a chiacchierare: indica specie di alberi, arbusti e uccelli, parla di caccia come se ne sapesse molto, raccoglie impressioni su come tu e io dobbiamo aver vissuto in tempi più pacifici. Tu ascolti; non mi volto, ma immagino di sentire i tuoi cenni di assenso. Il sentiero è ripido; risale attraverso gli alberi e sulla cresta alle loro spalle, poi segue quasi sempre il corso del torrente che alimenta il fossato del castello, attraversandolo più volte su piccoli ponti di legno che valicano burroni profondi e buie fenditure della roccia, dove l’acqua romba luminosa sul fondo e il cielo sopra di noi è uno specchio brillante spezzato dai rami nudi degli alberi. Il fango e lo strato di foglie decomposte rendono incerto ogni appoggio, e spesso ti sento scivolare, ma la luogotenente ti afferra, ti sorregge, ti aiuta a proseguire, ridendo e scherzando senza sosta.

Sempre più in alto. Guido il drappello fuori dai nostri boschi e in quelli di un vicino; se questa farsa deve proprio cominciare, almeno non sarà sulle terre che un tempo erano nostre.

La luogotenente fa una gran scena e insiste perché anche a noi tocchi un fucile: te ne mette uno fra le braccia, ne porge uno a me. Devo aprirlo per controllare che non sia già carico. I due soldati a cui lei aveva fatto portare i fucili restano indietro, con le loro carabine pronte — noto che hanno tolto la sicura. La luogotenente si caricherà da sola la sua doppietta — era delusa del fatto che non avessimo quegli arnesi a pompa — ma noi ci troviamo nella condizione privilegiata di avere ciascuno un aiuto: i soldati ricaricheranno per noi.

Su un’alta cresta di brughiera, la luogotenente si erge statuaria, impugnando un binocolo: scruta la pianura, il fiume, la strada, il castello lontano, si cerca una preda. «Laggiù», dice. Passa il binocolo a te. «Vede il castello? Vede la bandiera?»

Il tuo sguardo vola sul paesaggio e si ferma; annuisci lentamente. Indossi una giacca da caccia, una gonna pantalone scura, un comodo cappello e gli stivali; la luogotenente sfoggia la sua mimetica, ma con un cappello da cacciatore. Io ho pensato di mettere un vestito più adatto a un informale ricevimento da pomeriggio che a una battuta di caccia sulle colline, ma la nostra brava luogotenente non sembra aver notato la mia leggera stravaganza. In questo punto sopraelevato la nostra assurdità viene messa a nudo; facciamo una tal fatica per trovare piccole stupide creature da ammazzare, quando tutt’intorno — nella pianura, entro le colline più basse, nei paesi e nelle città più lontane, in ogni luogo in cui la carta indica un insediamento umano — ci sono le prove più evidenti di atrocità e di una smisurata moltiplicazione di macellai imbrattati di sangue: bersagli più adatti, avrei pensato, dato che non richiedono scuse, nessun elaborato e artificiale surrogato dell’ira per trasformarli in prede.

«Shhh!» fa la nostra luogotenente, toccandosi appena la testa. Ci mettiamo tutti ad ascoltare, e sentiamo, sopra il vento che cambia direzione, trasportati in sordina attraverso le cime degli alberi, i borborigmi, i rumori cupi e per metà avvertiti attraverso le vibrazioni del terreno, di una lontana artiglieria pesante.

«Lo sentite?» dice la luogotenente.

Tu annuisci. Lo stesso fa lei, pensosa. Quel lento battito ci cade addosso: due immense mani che applaudono, la terra cava e l’aria sonora che rimbombano insieme. La luogotenente si riprende il binocolo e interroga con quegli occhi grigi e freddi le terre distese sotto di noi, facendo scorrere lo sguardo su di esse, cambiando di continuo direzione, cercando invano l’origine di quello spettrale bombardamento.

«Oltre le colline, molto distante» dice sottovoce. Alla fine il rumore svanisce, sospinto su qualche invisibile superficie entro la portata del vento. La luogotenente scrolla le spalle e ritorna alle sue intenzioni originarie, punta il margine di una fitta foresta lungo il fianco della collina e ci ordina di puntare tutti in quella direzione. Ben presto ci troviamo davanti al bosco: un muro verde scuro a metà del pendio.

Non riesco a immaginare che possiamo trovare proprio lì qualcosa a cui sparare; avevo cercato di rimanere il più possibile sul vago, mentre la luogotenente pianificava questa spedizione. Non mi ero pronunciato su cosa c’era da cacciare e dove, sostenendo di essermi sempre affidato ai fedeli servigi di un dipendente che da tempo ci aveva lasciati perché mi mostrasse dove appostarmi per puntare il fucile, anche se avevo buttato lì che questa non fosse la stagione migliore per ciò che aveva in mente la luogotenente. Avrebbe preferito cervo, cinghiale o pecora?

Eppure, quando arriviamo a una piega fra le colline dove la foresta fa una V poco profonda, ci imbattiamo in uno stagno e in un intero stormo di piccoli uccelli che si abbeverano; un qualche tipo di fringuelli, penso. La luogotenente ci invita a stare pronti, controlla che i suoi uomini guardino noi e non la preda, poi spara i primi colpi quando le creature sono ancora troppo lontane e a terra. Gli uccelli si alzano in volo e roteano, si disperdono e poi si raggruppano mentre lo stormo si leva nel cielo. La luogotenente urla e scavalca una siepe, ricaricando in corsa. Tu e io ci guardiamo negli occhi. Anche le nostre scorte si scambiano un’occhiata, senza sapere cosa fare. Gli uccelli volano in cerchio, e ci sorpassano, mentre la luogotenente, ormai sotto di loro, spara di nuovo. Anche tu alzi il fucile e spari. Io no. Due nuvole di piume nell’aria e due corpi che precipitano a spirale segnalano un certo successo.

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