Paolo Villaggio - Vita, morte e miracoli di un pezzo di merda

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Vita, morte e miracoli di un pezzo di merda: краткое содержание, описание и аннотация

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«Mi scusi, ma non le posso rispondere, perché sto marinando e sono in incognito.»

* * *

L'altro fratello è un fratello d'acquisto, e ci sono vissuto insieme dai venticinque ai cinquantanni. È Fabrizio De André, anche lui molto intelligente, esibizionista e vanitoso come una ballerina turca.

Si specchiava maniacalmente dovunque: occhiali da sole dei passanti, vetrine, vassoi d'argento nei bar. Di fronte agli specchi degli ascensori, poi, rimaneva quasi ipnotizzato e bisognava sradicarlo con una certa violenza, mentre lui si passava la mano fra i capelli.

Non si lavava mai e quando gli dicevo: «Ma lavati ogni tanto! Così puzzi come un cane marcio dopo una giornata di pioggia!».

E lui, onestissimo, rispondeva: «Sì, lo riconosco, ma sono molto pigro».

Una notte di novembre, un tempo da lupi, pioggia, vento e un freddo fottuto. Si andava sempre in casa di un nostro amico paralitico, che passava la vita su una sedia a rotelle in un piccolo appartamento affacciato su un miserabile giardino. Notti intere aspettando la rivoluzione maoista. Fabrizio aveva sempre una fame della madonna, e non aveva mai una lira. Quella notte di tregenda eravamo in attesa di eventi. Sentiamo un sommesso bussare sul vetro della portafinestra. Guardiamo, non si vede nessuno. Bussano ancora, Fabrizio si alza e apre la finestra: «Si può sapere chi è? Porca puttana!».

Entra un gatto bagnato, barcolla, poi si passa una zampa sullo stomaco e con un gorgoglìo sinistro vomita sul pavimento un topo masticato e mal digerito. C'eravamo io, il famoso playboy Gigi Rizzi, quello della Bardot, per intenderci, e il paralitico.

I presenti si alzano tutti in piedi (tranne ovviamente il paralitico) con un urlo di orrore.

Fabrizio dice: «Esagerati! Io ho una tale fame che quel topo me lo mangio!».

Il playboy: «È impossibile! Non ce la farai mai!».

«Per denaro, sì!»

«Quanto?»

«Ventimila! Mettile però sul tavolo!»

Fabrizio afferra il malloppo, si china sul pavimento e dà una linguata al cadavere del topo.

E tutti i presenti: «No, no… lo devi mangiare!».

Allora lui, sempre da terra, stacca una gamba e la coda e le mastica tre volte. Poi sputa e dice:

«Un po' d'acqua, per favore!».

«Come va?» gli domando io prendendolo da parte.

«Ho delle visioni, manie di persecuzione, miraggi. Acqua! Perché sto per vomitare».

* * *

Eravamo così poveri che d'estate, senza vergogna, andavamo a mezzogiorno a elemosinare avanzi di frittata, resti di spaghetti freddi nelle cabine di legno dei Bagni Lido. Quelle cabine avevano un odore stantio, di muffa e sale. Per noi, «i poveri», non c'era altro posto dove andare a fare all'amore. D'inverno, invece, facevamo un largo uso di sacchi a pelo sulle colline.

L'odore di quelle cabine mi fa tutt'ora un effetto molto stimolante sessualmente. Ho pensato anche, ora che sono vecchio e impotente, di farmene costruire una da un artigiano turco, recuperando, però, gli stessi legni marcescenti di allora. Ho parlato con un sessuologo, un autentico imbecille, che mi ha detto: «Non le garantisco nulla, ma può tentare».

Io e Fabrizio eravamo due biechi intellettuali di sinistra. Io, poi, ero a sinistra del Partito comunista cinese. Caratteristica drammatica degli intellettuali di sinistra era che non scopavano mai!

Alle due del pomeriggio di ogni domenica c'era il raduno delle ragazze sul muretto dei Bagni Lido, vicino all'orologio. Erano tutte giovani e carine, con delle gonne larghe di panno e lunghe fino alla caviglia. Erano di vari colori: rosse, nere, verdi, bianche. Avevano tutte scarpe con il tacco a spillo, magliette aderenti e cinture in cuoio alte, molto strette. Alcune portavano anche le calze con le giarrettiere. Accavallavano continuamente le gambe con fare provocatorio, e la fugace visione delle mutande ci faceva imbizzarrire come cavalli andalusi. Io e Fabrizio eravamo molto interessati a quell'accavallio di gambe. Arrivavamo all'orologio prima degli altri e già inferociti.

«Fasciste! Borghesi! Ancora pochi mesi! Non c'è speranza per voi, la lieta novella viene da Oriente, da Mao. Verrà Mao e spazzerà via tutto questo marciume. Poveracce! Ci fate molta pena!»

Le ragazze erano molto impressionate, smettevano di ridere e pensavano: «Ma che domenica ci aspetta con questi due energumeni?».

E mentre noi eravamo lì a urlacchiare come due squilibrati, alle nostre spalle arrivava uno che, senza parlare, ne indicava una e con un gesto della testa la portava via. Poi ne arrivava un altro, sempre in silenzio, e ne portava via un'altra. Poi arrivava un certo Sandro, che ne indicava due e le portava via entrambe.

Ricordo che quelle che venivano chiamate si rimettevano a posto la gonna, si alzavano e salutavano. Dopo un'ora si rimaneva soli come cani, e Fabrizio: «Siamo rimasti soli, hai visto?».

«Poveracce, però! Eh!? Sono andate via con quei cretini. Ma dove possono essere andate?», e qui la voce mi si spegneva quasi in gola.

«A scopare!»

«Poveracce!»

Ho detto poveracce perché noi avevamo, invece, il conforto del mitico appuntamento in cineteca.

Ogni domenica, alle ore 15, un gruppo di sventurati si dava appuntamento in una fetida saletta parrocchiale. Gli intellettuali entravano disperati alle 15 in punto. Alla porta c'era un altro disperato: era il capo della cineteca, il coordinatore, l'organizzatore, il programmatore. Non aveva rapporti sessuali da dodici anni, ne aveva cinquantatré, e praticava, largamente, la masturbazione a due mani.

Gli intellettuali gli domandavano: «Che danno oggi?».

Speravano tutti nel Segno di Zorro o L'infermiera al servizio militare. E lui, carogna: «Dies irae di Cari Theodor Dreyer», uno spaventevole film muto di due ore e quaranta.

Per quattro anni io e Fabrizio, tutte le domeniche, abbiamo avuto il coraggio disperato di subire L'uomo di Aran di Flaherty (cinque ore!) e una rassegna di film muti cecoslovacchi con didascalie in tedesco!

I più scaltri del gruppo appena entrati si attrezzavano: imbracatura da paracadutisti, un grosso gancio a soffitto e prendevano sonno. Ogni tanto durante una di quelle feroci proiezioni qualche intellettuale si sganciava e andava a pavimento: «Già le sette? Mamma portami „l'Unità“ e un caffè d'orzo!». Poi si riprendeva completamente: «Oh! Scusate! Mi ero… mi ero…», si rialzava senza finire la frase.

Finiva la proiezione, luci in sala. Francesco Baratelli, il capo della cineteca, si svegliava con un urlo agghiacciante! Quell'urlo svegliava tutti gli altri e, con tonfi sordi, andavano a pavimento anche tutti gli intellettuali agganciati al soffitto. Un clima di grande attesa. Poi, in un silenzio di vetro, si alzava Baratelli, faceva una lunga pausa e poi, all'improvviso: «Questo che è uno dei più grandi film di tutti i tempi del grande maestro…». Alle parole «tutti i tempi» e «del grande maestro» gli intellettuali urlavano come indemoniati! Questa era la parte più succulenta: il dibattito! Nessuno voleva comunicare qualcosa o dare giudizi, ma solo ben figurare, apparire, terrorizzare gli altri.

S'impossessavano delle ultime parole che arrivavano da fuori: «L'uso del montaggio analogico è geniale!» ululavano, «soprattutto nella misura in cui il grande maestro manda un segnale forte con quella dissolvenza subliminale!». Usavano il cosiddetto sinistrese; se fosse entrato lì un essere umano avrebbe pensato di essere in Cappadocia.

Una sera davano Ciapaiev. Un terrificante capolavoro del cinema sovietico muto. S'erano tutti già agganciati al soffitto quando è entrato Baratelli, faccia da funerale, e con voce rotta ha detto: «Purtroppo vi devo dare una tragica notizia. Non sono arrivate le pizze» alla parola pizze molti hanno mugolato per la fame «del film. Ma non andate via, in sostituzione vi faremo vedere un povero film che c'è qui in magazzino: Quel gran pezzo dell'Ubalda, tutta nuda e tutta calda». L'abbiamo visto tre volte di seguito.

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