“Non intendevo dire il mio lavoro,” disse Steve-O.
Qualcuno rise.
In tv apparve un podio vuoto. Era fiancheggiato da bandiere americane.
“Signore e signori,” disse una voce sommessa, “la presidente degli Stati Uniti.”
Susan Hopkins salì sul palco da destra. Indossava un tailleur con pantalone marrone chiaro, i capelli in un corto caschetto biondo. Bellissima. Marc se la ricordava ai tempi in cui faceva la modella, in particolare una certa edizione in costume da bagno di Sports Illustrated di venticinque anni prima. All’epoca stava raggiungendo la mezza età, era sposato con figli. C’era qualcosa che spezzava il cuore in quello scatto – lei era eterea, irraggiungibile, di un altro mondo. Non aveva parole per quello che era. E, comunque, adesso era anche meglio – più terra terra, più matura. A Marc piacevano le donne con un certo chilometraggio.
“Levatelo, tesorino!” disse Steve-O strappando qualche risata agli altri.
Marc aveva servito a Steve-O sei shot e sei birre nelle ultime due ore. Adesso avrebbe detto che Steve-O era visibilmente ubriaco. E stava cominciando a dargli sui nervi. “Adesso basta, Steve-O.”
Steve-O lo guardò. “Cosa?”
“Chiudi la bocca o va’ a casa. È questo che sto dicendo.”
Marc tornò a voltarsi verso lo schermo televisivo. La Hopkins non aveva ancora detto nulla. Sembrava trattenere un’emozione. Era la fine, allora. Stava per fare il discorso della sconfitta. Era sembrata popolare, però alla fine era stata una presidente da una sola legislatura – e nemmeno completa.
“Miei connazionali americani,” disse.
Il bar ammutolì. La stanza da dove parlava era quasi silenziosa – Marc riusciva a sentire il ronzio e gli scatti delle macchine fotografiche.
“Esporrò i miei commenti con brevità. È stata una campagna elettorale combattuta a fatica tra due visioni dell’America molto diverse. Una visione è di ottimismo, comprensione e orgoglio per ciò che abbiamo compiuto come nazione. L’altra è un’oscura visione di pericolo, disperazione, risentimento e paranoia, persino, che vede la nostra nazione come un paesaggio rovinato che può essere salvato attraverso gli sforzi di un solo uomo. E promette violenza – violenza contro il nostro partner commerciale più importante, così come violenza contro le nostre comunità, i nostri vicini, e i nostri amici.
“Sono sicura che sapete quale visione abbraccio io. Non posso accettare una visione del mondo basata su razzismo, pregiudizio e diffidenza. Eppure, nonostante i miei timori, in circostanze normali ora avrei il compito di congratularmi con l’apparente vincitore di questa gara, e di dare il benvenuto al presidente eletto, preparandomi graziosamente per il pacifico trasferimento di potere che costituisce un tratto caratteristico della nostra democrazia.”
Fece una pausa. “Ma queste non sono circostanze normali.”
Marc si tirò dritto. Sentì un fremito lungo la spina dorsale. Guardò gli uomini allineati al bar. Ciascuno di loro adesso era incollato al televisore. Ciascuno di loro improvvisamente era attento, come un animale prima di una tempesta in avvicinamento. Che stava dicendo?
“La mia campagna ha scoperto prove di irregolarità nelle elezioni in almeno cinque stati, inclusa soppressione di voto, ma anche aperta manomissione e potenziale hackeraggio delle macchine elettorali. Abbiamo ragione di credere che le elezioni siano state rubate, non solo alla nostra campagna, ma al popolo americano. Abbiamo già contattato l’FBI e il dipartimento di Giustizia per queste nostre preoccupazioni, e intendiamo assistere a una piena e imparziale indagine. Finché questa non sarà completata – per quanto ci voglia – non posso e non riconoscerò i risultati delle elezioni, e continuerò a svolgere i doveri di presidente degli Stati Uniti, portando a termine il mio giuramento di proteggere e sostenere la Costituzione. Grazie.”
In tv, la presidente Hopkins si spostò verso destra e uscì dallo schermo. Ci fu un balbettio di voci mentre i reporter urlavano, gareggiando gli uni con gli altri per avere la sua attenzione. Scoppiarono i flash. Il televisore passò a una telecamera diversa, questa concentrata sulla presidente che veniva fatta uscire di fretta da una porta laterale dietro a un mare di grossissimi agenti dei servizi segreti. Non aveva risposto a una singola domanda.
“Che significa?” disse Steve-O. “Può farlo?”
Nessuno disse una parola.
Marc continuò ad asciugare i bicchieri di birra. Nemmeno lui conosceva la risposta a quella domanda.
17:48 ora della costa orientale
34° piano
Willard Intercontinental Hotel, Washington DC
“Siamo una nazione soggetta alla legge?” urlò l’uomo al telefono.
Sedeva con i piedi sull’ampia scrivania di quercia lucidata, guardando le luci del Campidoglio fuori dalla finestra alta dal pavimento al soffitto. Fuori era buio – il sole tramontava presto in quel periodo dell’anno.
“È questo che voglio sapere. Perché se siamo una nazione soggetta alle leggi, quella donna, l’occupante attuale della Casa Bianca, deve fare le valigie. Ha perso, e ha vinto Jefferson Monroe. Jefferson Monroe è il presidente eletto degli Stati Uniti. E, arrivato il giorno dell’insediamento, se l’occupante attuale non è fuori, dovremo sfrattarla, come lo sceriffo che sfratta un inquilino lavativo.”
L’uomo fece una pausa di qualche secondo per ascoltare il reporter all’altro capo della linea.
“Ah sì, può citarmi. Stampi ogni parola.”
Riappese il telefono e lo fece scivolare sulla scrivania. Controllò l’orologio e respirò profondamente. Era stato al telefono con giornalisti per quasi un’ora da quando Susan Hopkins era scappata dal palco per sfrecciare fuori dalla stanza alla fine della sua sciocca conferenza stampa.
L’uomo si chiamava Gerry O’Brien. A cinquant’anni era molto alto e magrissimo. Stava perdendo i capelli, e il volto era tutto angoli e precipizi infossati. Pesava quanto il giorno in cui si era laureato al college. Era una maratoneta, un triatleta, e negli ultimi anni aveva preso a fare corse nel fango e di sopravvivenza. Qualsiasi cosa di difficile, tosta, estrema, dove la gente precipitava giù per le fiancate o vomitava le budella o cadeva per una collina e si spaccava le ginocchia, aveva su il suo nome.
Figlio di immigrati irlandesi, era emerso sulle strade di Woodside, Queens. Suo padre era una guardia carceraria. Sua madre una donna di servizio. Gente dura, e lo avevano cresciuto perché fosse un duro. Se si vuole crescere a Woodside, bisogna combattere. Ok? Non aveva importanza per lui. Sarebbe entrato in competizione con chiunque. Era così feroce, così spietato, che i ragazzini del quartiere lo chiamavano lo Squalo.
Fu la prima persona della famiglia ad andare al college, e poi – territorio sconosciuto – alla scuola di legge. Aveva fatto il suo primo milione prima di compiere i trenta, dando la caccia alle ambulanze – lesioni personali.
Si era fatto fare una foto in cui era molto arrabbiato (e poche persone avevano la capacità di mostrarsi arrabbiate come lui) e aveva pagato per far affiggere dei piccoli poster promozionali per tutta la metropolitana.
Ferito? Ti serve qualcuno di tosto che combatta per i tuoi diritti. Un avvocato vero. Un newyorchese vero. Ti serve Gerry O’Brien. Ti serve lo Squalo.
Quasi istantaneamente, era diventato Gerry lo Squalo. Chiunque prendesse la metro nei cinque distretti conosceva quel nome. Prendeva la metro anche lui solo per guardare le sue pubblicità – e lui la metro la odiava.
Più faceva, più manifesti poteva permettersi. E più manifesti faceva affiggere, più faceva. Ben presto passavano gli spot nella tv della notte, poi di metà pomeriggio. Jackpot. Aveva avuto tre avvocati a lavorare per lui, poi cinque, poi dieci. Poi venti. Quando dieci anni prima aveva venduto l’attività, aveva trentatré avvocati e più di cento persone dello staff.
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