Sulla strada del cimitero, appena giù dalla collina a un centinaio di metri di distanza, una limousine nero corvino accostò di fronte all’anonima berlina a noleggio di Luke. Mentre osservava, un autista con giacca e berretto neri aprì la portiera posteriore.
Ne emersero due figure. Una era un giovane, che si stava facendo alto quanto il padre. Il ragazzo indossava jeans, sneakers, una camicia e una giacca a vento. L’altra figura era un’anziana, appena piegata, con addosso un lungo e pesante cappotto di lana contro l’aria umida dell’autunno. Luke non doveva indovinare chi fossero – lo sapeva già.
Luke aveva imbrogliato. Certo che lo aveva fatto. Quindici minuti prima aveva seguito quella stessa limousine. Quando aveva capito dove stavano andando, aveva deciso di batterli sul tempo. I due che adesso procedevano lentamente su per il sentiero, a braccetto, erano Audrey, la madre settantaduenne di Becca, e Gunner, il figlio tredicenne di Luke e Becca.
Luke distolse lo sguardo un attimo mentre si avvicinavano, scrutando l’orizzonte come se là fuori lo interessasse qualcosa. Quando si voltò di nuovo erano quasi arrivati. Li osservò arrivare. Audrey si muoveva lentamente, studiandosi i piedi con cautela quando toccavano terra – dimostrava più anni di quanti ne aveva. Gunner camminava goffamente con lei, sostenendola. Il lento passo sembrava che gli avrebbe fatto perdere l’equilibrio – era come un giovane puledro intrappolato in una stalla, tutto energia frustrata, smanioso di sprigionare la sua velocità e il suo potere.
Gunner guardò Luke interrogativamente, ma solo per qualche secondo. Erano passati quasi due anni dall’ultima volta che si erano visti – un’immensa quantità di tempo alla sua età – e per un attimo fu chiaro che non sapeva chi fosse Luke. Il volto gli si oscurò quando si accorse di guardare suo padre. Poi guardò a terra.
Audrey seppe subito chi era Luke.
“Posso aiutarti?” disse prima ancora di raggiungere la lapide.
“Tu no,” disse Luke. Audrey e suo marito Lance non lo avevano mai accettato come genero. Erano stati un’influenza tossica nel suo matrimonio da ben prima che lui e Becca si scambiassero i voti. Luke a Audrey non aveva niente da dire.
“Che ci fai qui, papà?” disse Gunner. Adesso aveva la voce più profonda. Sulla gola aveva la sporgenza del pomo d’Adamo – prima non c’era.
“Sono stato chiamato qui dalla presidente. Ma volevo prima vedere te.”
“La tua presidente ha perso,” disse Audrey. “Si è rintanata nella Casa Bianca come una pazza, rifiutandosi di ammettere la sconfitta. Ho sempre saputo che aveva qualcosa di sospetto. Adesso è sotto gli occhi di tutto il mondo. Sperava di diventare imperatrice?”
Luke guardò Audrey, con calma, esaminandola. Aveva occhi infossati con le iridi così scure da sembrare quasi nere. Aveva un naso aguzzo, come un becco. Aveva le spalle curve, e le mani erano incredibilmente fragili. Le ricordava un uccello – un corvo, o magari un avvoltoio. Un mangiatore di carogne, comunque.
“Ha perso,” disse di nuovo Audrey. “Deve farsene una ragione e prepararsi a consegnare il potere al vincitore.”
“Gunner?” disse Luke, ora ignorando Audrey. “Possiamo parlare?”
“Avevo detto senza mezzi termini a Rebecca di non sposarti. Le avevo detto che sarebbe finita in modo disastroso. Ma non avevo mai neanche immaginato che si sarebbe arrivati a questo.”
“Gunner?” ripeté Luke, ma adesso il ragazzino guardava altrove. Luke vide una lacrima scendergli giù per il viso. Il ragazzino deglutì a fatica.
“Voglio solo scusarmi.”
Le parole gli uscirono sbagliate. Scusarsi? Le scuse non bastavano. Luke lo sapeva. Ci sarebbe voluto ben più delle scuse per sistemare di nuovo la situazione, se mai fosse stato possibile. Voleva dirlo a Gunner. Voleva dirgli che avrebbe fatto qualsiasi cosa, qualsiasi, se solo gli avesse permesso di tornare nella sua vita.
Aveva commesso un errore terribile. Avrebbe trascorso il resto della vita su quello. Lo avrebbe sistemato.
Gunner lo guardò, ora piangendo apertamente. Le lacrime gli scendevano a fiumi giù per il viso. “Non voglio parlarci con te.” Scosse la testa. “Non voglio vederti. Voglio solo dimenticarti, non lo vedi?”
Luke annuì. “Ok. Ok, lo rispetto. Ma sappi che ti voglio bene e che sono sempre aperto a sentirti. Hai ancora il mio numero? Puoi chiamarmi se cambi idea.”
“Non ho il tuo numero,” disse Gunner. “E non cambierò idea.”
Luke annuì di nuovo. “In questo caso, ti lascio stare.”
La voce di Audrey seguì Luke giù per il sentiero. “Mi pare una buona idea,” disse. “Lascia stare il ragazzo.” Poi rise, un gracchio folle che sarebbe sembrato un tossire se Luke non lo conoscesse già.
“Lasciaci stare con la nostra morta.”
Luke andò alla sua auto, ingranò la marcia e fu quasi ai cancelli del cimitero prima di cominciare a piangere anche lui.
16:57 ora della costa orientale
Bubba’s Lounge
Chester, Pennsylvania
Nessuno ricordava chi fosse Bubba.
La piccola taverna si trovava a un angolo di strada all’estremità sudorientale di Chester, vicino al fiume, da dopo la seconda guerra mondiale. In vari momenti dieci diverse persone ne erano state i proprietari, e si era sempre chiamata Bubba, per quanto ci si ricordasse. Ma nessuno sapeva perché.
“Immagino che getterà la spugna,” disse un uomo al bar.
“È solo questione di tempo,” disse un altro.
Oggi al bar c’era Marc Reeves. Marc era un veterano, sessantasette anni. Da venticinque anni di tanto in tanto spillava birra in quel bar, e ormai era sopravvissuto a tre titolari. Aveva visto la città fallire completamente, da quel bar. In una città dove praticamente tutto era stato sprangato o presto lo sarebbe stato, il Bubba era un successo. Però nessuno lo teneva a lungo.
Il locale era anche andato in fallimento – questo era il problema. Non perdeva soldi, non faceva soldi. Era meglio lavorarci, o venirci a bere, che esserne il proprietario. Almeno ti tornava qualcosa per i fastidi.
C’era un grosso e vecchio televisore a colori montato su una barra di ferro dietro al bar. A quell’ora del pomeriggio il locale aveva quattro o cinque bevitori giornalieri allineati sul bancone per buttar via gli assegni della previdenza sociale e ciò che rimaneva del fegato. Di solito la televisione era sintonizzata su una partita qualsiasi. Oggi però era diverso. Oggi la presidente teneva la prima conferenza stampa da quando aveva perso le elezioni.
Marc l’aveva guardata con scetticismo quando aveva assunto la carica, soprattutto considerando le circostanze, ma aveva cominciato a piacergli. Pensava che avesse fatto un buon lavoro, tutto sommato. Lei, e il paese, avevano fronteggiato molte tempeste. Quindi il giorno precedente aveva fatto una cosa che faceva raramente – aveva votato per lei. Erano dodici anni che non metteva piede in un seggio elettorale.
Non tutti erano d’accordo con la sua decisione.
“Il nuovo mi piace,” disse uno grasso lungo il bancone. Tutti lo chiamavano Skipper. Probabilmente non aveva mai visto una barca in vita sua. “Che cos’ha mai fatto Susan Hopkins per Chester, Pennsylvania? È questo che voglio sapere. Comunque è ora che qualcuno metta un freno a questa invasione di cinesi.”
“E che ci ridia il lavoro, visto che ci sei,” disse un uomo che si chiamava Steve-O. Steve-O era così magro da essere come uno di quei scovolini per pipa fatti a forma di omino. Entrava lì a bere birra e bourbon ogni singolo giorno. Marc non aveva mai visto Steve-O mandar giù un boccone. Sembrava sopravvivere di solo alcol.
Marc stava asciugando i bicchieri da birra appena usciti dalla lavastoviglie. “Steve-O, hai la disabilità da vent’anni.”
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