1 ...7 8 9 11 12 13 ...16 “Intesi!” urlò qualcuno.
“Yo!”
“Abbiamo capito, bello.”
Kyle sorrise. “Bene. E adesso andiamo a spaccare qualche culo.”
I cartelli erano impilati nel retro. La maggior parte diceva L’America è nostra! Uno diceva I gialli a casa loro! Quello era il cartello di Kyle. Se quegli uomini erano la lama affilata, lui era la goccia di veleno sulla punta.
Aveva ventinove anni, ed era un organizzatore della Tempesta Imminente da poco più di due. Era il lavoro dei suoi sogni. Dove aveva trovato le reclute? In sala pesi, quasi esclusivamente. Gold’s Gym. Planet Fitness. YMCA. Posti in cui grossi e forti uomini passavano il tempo, uomini che ne avevano abbastanza. Della censura. Del pensiero della polizia. Dei lavori buoni che finivano oltreoceano. Della mescolanza razziale.
Della religione di multiculturalismo che veniva loro imposta.
Se qualcuno cinque anni prima avesse detto a Kyle che avrebbe raccolto gruppi di uomini – i migliori, i più duri, i più aggressivi giovani bianchi che riuscisse a trovare – e che avrebbero infuso la paura del Signore nelle persone che stavano trascinando giù quel paese… che avrebbero riportato l’America alla grandezza… e che lui sarebbe stato pagato per farlo? Be’, Kyle avrebbe detto che quel qualcuno era un idiota.
Però, eccolo qui.
Ed ecco i suoi ragazzi.
E il loro era un uomo che era stato appena eletto presidente degli Stati Uniti.
Non c’era che la luce del giorno davanti, e avrebbero fatto molta, moltissima strada. E chiunque si fosse parato davanti a loro, che avesse cercato di fermarli o anche solo di rallentarli – chiunque del genere sarebbe stato falciato. Così stavano le cose.
Le portiere posteriori del furgone si aprirono, e i ragazzi saltarono giù afferrando i cartelli. Kyle fu l’ultimo. Uscì in strada, la notte che pareva risplendere attorno a lui. Fuori faceva freddo – nevicava anche un po’ – ma Kyle era troppo esaltato per sentirlo. La strada era stretta, con caseggiati di quattro piani ad affollarla su ciascun lato. Tutti i cartelli al neon delle vetrine erano in cinese, grovigli di assurdità incomprensibili – impossibili da leggere, impossibili da capire.
Era ancora America, quella? Certo che sì. E la gente qui parlava inglese.
I furgoni parcheggiarono in fila. Ovunque grossi uomini bianchissimi in maglie nere, una massa che rimbalzava e si contorceva. Erano una forza d’invasione, come vichinghi in un raid costiero. Brandivano i cartelli come asce d’armi. Il sangue correva rapido.
Una folla di minuscoli asiatici sgomenti guardava con… cosa?
Shock? Orrore? Paura?
Oh sì, tutte quante.
Cominciò il primo slogan, un po’ mansueto per i gusti di Kyle, ma per cominciare andava bene.
“L’America… è nostra!”
I ragazzi trovarono la loro voce e il volume salì di una tacca.
“L’AMERICA… È NOSTRA!”
Kyle fletté le braccia. Fletté la parte superiore della schiena, e le spalle rotonde, e le gambe. Era un raduno, certo, ed era quello che aveva detto ai suoi uomini. Ma sperava che diventasse qualcosa di più. Tratteneva la rabbia da quello che sembrava moltissimo tempo.
I raduni andavano bene, però aveva davvero voglia di spaccare teste.
Nel giro due minuti, il suo desiderio venne esaudito. Mentre la fila di manifestanti si spostava giù per la strada, a forse quindici metri da lui, cominciò uno spintonamento.
Uno dei suoi prese un cinese da entrambe le spalle e lo spinse contro una vetrina di portafogli. Il cinese cadde attraverso la vetrina, che collassò istantaneamente. Altri due cinesi saltarono sul tizio. Improvvisamente, Kyle correva. Lasciò cadere il cartello e si precipitò tra la folla.
Atterrò un cinese con un pugno, poi guadò un gruppo dei loro, nuotando di brutto. I suoi pugni rompevano ossa.
E, lo sapeva bene, ne sarebbero arrivati altri.
21:15
Ocean City, Maryland
“Non benissimo,” disse Luke.
L’ascensore era tutto tappeti e pareti in vetro. Una doppia riga di pulsanti percorreva il pannello metallico. Scorse il suo riflesso nello specchio concavo di sicurezza nell’angolo in alto. Era un’immagine di lui strana, distorta, da casa degli specchi, totalmente in conflitto con il riflesso sulle pareti di vetro. Il vetro normale mostrava un uomo alto vicino alla mezza età, molto in forma, con profonde zampe di gallina attorno agli occhi e un principio di grigio nei corti capelli biondi. Gli occhi sembravano antichi.
A fissarli, improvvisamente poté vedersi da uomo vecchissimo, solo e spaventato. Era solo al mondo – più solo di quanto fosse mai stato. In qualche modo gli ci erano voluti due interi anni per capirlo. Sua moglie era morta. I suoi genitori se n’erano andati da tanto. Suo figlio si stava indurendo nei suoi confronti. Non c’era nessuno nella sua vita.
Poco prima, in macchina, appena prima di entrare nell’ascensore, aveva ripescato il vecchio numero di cellulare di Gunner. Era sicuro che Gunner ce lo avesse ancora. Il ragazzo avrebbe tenuto il numero anche dopo essersi trasferito dai nonni, anche dopo aver preso il miglior iPhone nuovo disponibile. Luke ne era sicuro – Gunner teneva il suo vecchio numero perché più di tutto voleva sentire suo padre.
Luke aveva inviato un semplice messaggio al vecchio numero.
Gunner, ti voglio bene.
Poi aveva aspettato. E aspettato. Niente. Il messaggio era andato nel vuoto, e non era tornato niente. Luke non sapeva neanche se fosse il numero giusto.
Come si era arrivati a quello?
Non aveva tempo di riflettere sulla risposta. L’ascensore si aprì direttamente nell’ingresso dell’appartamento. Non c’era corridoio. Non c’erano altre porte eccetto quelle doppie di fronte a lui.
Le porte si aprirono e lì c’era Mark Swann.
Luke si immerse nella sua visione. Alto e magro, con lunghi capelli biondo rossiccio e occhiali rotondi alla John Lennon. Aveva i capelli raccolti in una coda di cavallo. Era invecchiato, in due anni. Era più pesante di prima, soprattutto attorno alla parte media del tronco. Il volto e il collo sembravano più spessi. La t-shirt aveva le parole SEX PISTOLS sul davanti in lettere che potevano essere usate per scrivere un biglietto di riscatto. Indossava blue jeans, con scarpe Converse All-Star a scacchiera gialla e nera ai piedi.
Swann sorrise, ma Luke vide chiaramente che sforzo c’era dietro. Swann non era felice di vederlo. Sembrava che avesse mangiato pesce avariato.
“Luke Stone,” disse. “Accomodati.”
Luke ricordava l’appartamento. Era grande e iper-moderno. C’erano due piani, open space, con un soffitto alto sei metri. Una scala di acciaio e cavi saliva al primo piano, dove si collegava una passerella. Lì c’era un soggiorno, con un ampio divano sezionale bianco. Dietro di esso l’ultima volta c’era un dipinto astratto – assurde chiazze rabbiose rosse e nere che si sviluppavano per un metro e mezzo – Luke non ricordava bene come fosse. Comunque, adesso era sparito.
I due si strinsero la mano, poi si abbracciarono con fare imbarazzato.
“Albert Helu?” disse Luke usando il nome dell’alias di Swann che possedeva l’appartamento.
Swann scrollò le spalle. “Se ti va. Puoi chiamarmi Al. È come mi chiamano tutti qui. Ti porto una birra?”
“Certo. Grazie.”
Swann sparì in cucina attraverso una porta a vento.
Alla sua destra Luke poteva vedere il centro di comando di Swann. Era cambiato pochissimo. Una partizione in vetro lo divideva dal resto dell’appartamento. Una grossa sedia in pelle se ne stava a una scrivania con un argine di computer fissi sul pavimento al di sotto di essa, e tre schermi piatti sopra. Dei cavi correvano per tutto il pavimento come serpenti.
Sulla parete in fondo, dall’altra parte del sofà, c’era un gigantesco televisore a schermo piatto, forse grande la metà di quelli del cinema. Era muto. Sullo schermo, circa una dozzina di furgoni e auto della polizia erano parcheggiati su una via cittadina, le luci che lampeggiavano nell’oscurità. Cinquanta poliziotti erano in fila. Del nastro giallo della polizia si allungava in molte direzioni. Una grossa folla di gente stava dietro al nastro, fin giù per l’isolato e lontano dalla scena.
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