Ma dove poteva essersi diretto? Sicuramente a Kruth, il villaggio situato in fondo alla valle. Era uno dei miei luoghi preferiti. Avrei voluto fuggire con lui, lontano da quella mamma così meschina.
A Kruth viveva Paul Arnold, zio e patrigno del papà. Io lo chiamavo “nonno-padrino”. Aveva l’abitudine di stare in piedi con la mano destra appoggiata allo stipite della porta, proprio sotto la croce scolpita nell’architrave di pietra, dove erano state incise delle cifre. Quando sorrideva, i suoi occhi sparivano fra le rughe del viso. Era così vecchio e rugoso che assomigliava a un pruno! Portava i calzoni arrotolati più volte attorno alla cintura. Avrei tanto voluto essere da lui!
Perché il papà non mi aveva portato con sé?
Invece me ne stavo lì imbronciata nella mia cameretta e poco dopo iniziai a piangere.
“Adolphe, Adolphe, sei riuscito a tornare a casa!” La voce eccitata di mia madre mi fece sussultare. Stavo sognando? Balzai in piedi e mi precipitai fra le braccia di mio padre; intanto la mamma corse in cucina a preparargli un pasto caldo.
Il papà ci spiegò l’accaduto: “Gli operai della fabbrica hanno scioperato fermando le presse senza neppure togliere la stoffa dalle stampanti! Tutti sono corsi fuori precipitosamente, ma chi indossava le camicie bianche è stato costretto a rientrare. Alcuni sono stati perfino picchiati! Nessuno poteva più entrare o uscire 1”.
1In seguito alla vittoria del Fronte Popolare nel giugno 1936, scoppiarono scioperi bianchi in diverse zone della Francia.
“E tu come hai fatto a scappare?”
“Sono andato a dormire con gli ingegneri nel magazzino dei tessuti. Da lì sentivamo gli slogan e le minacce degli operai. Vi assicuro, era veramente spaventoso! Ma sapevo che alle due del pomeriggio alcuni colleghi stampatori, coloristi e incisori sarebbero arrivati all’entrata. Quindi sono sceso. Appena mi hanno visto, hanno aperto la porta gridando: ‘È dalla nostra parte, anche se porta una camicia bianca! Lasciatelo uscire!’ Ho avuto bisogno della loro protezione a causa degli operai che non mi conoscevano”.
Mio padre aveva avuto bisogno di protezione? Aveva avuto paura? E aveva dormito in un magazzino pieno di bidoni di inchiostro senza fare una sola macchia sui suoi abiti? Non ci capivo niente!
Mangiava e raccontava con parole che non mi erano familiari. Non l’avevo mai visto così agitato. La sua faccia era tutta rossa e la voce tesa. Temevo che cadesse morto stecchito, proprio com’era successo tempo addietro a suo padre.
Continuò il suo discorso con termini inconsueti: proletariato, comunisti, socialismo, rivendicazioni, salari, diritti umani, classe dirigente, fiducia.
A un certo punto non ne potei più di tutto quel parlare febbrile. Uscii sul balcone. La luce della cucina rischiarava le petunie blu e bianche e i gerani rossi, ma la notte aveva zittito il canto degli uccelli e il ronzio delle api.
“Guarda, papà! Il cielo ha di nuovo indossato il suo mantello di velluto nero trapunto di diamanti”.
Allora lui smise finalmente di parlare e mi raggiunse. Mi sollevò fra le sue braccia, mentre la mamma sparecchiava la tavola.
“Simone, quei diamanti lì sono stelle. Sono molto, molto grandi e anche tanto lontane”. Ne indicò alcune sopra la nostra testa e proseguì: “Le vedi quelle quattro disposte in quadrato con le altre tre che formano una coda?”
“Oh, sì! È una pentola”.
“Si chiamano Orsa Maggiore”.
“Non riesco a vedere l’orsa!”
“Non riesci, perché non puoi vedere tutte le stelle che la formano”.
“Oh! Adesso ho capito, l’orsa è nella pentola!”
Da quella sera continuai a scrutare il cielo stellato per cercare di trovare l’Orsa Maggiore, ma la pentola rimaneva disperatamente vuota.
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Estate 1936
La mamma e io avevamo trascorso le vacanze estive dai nonni. Ora la stagione calda giungeva gradualmente al termine, portandosi via le belle giornate soleggiate e la mamma aveva quasi terminato i suoi lavori di cucito. Zio Germain era estasiato dalle sue camicie nuove, il nonno era soddisfatto dei calzoni di velluto e la nonna andava fiera del suo cappello letteralmente trasformato: ornato con i fiori e quei nastri color lilla, avrebbe fatto colpo alla messa domenicale.
Per quell’anno il nonno aveva deviato un’ultima volta la fredda acqua della montagna, che serviva ad alimentare la fontana. Quella rimasta nella vasca si sarebbe scaldata al sole di mezzogiorno, così avrei potuto sguazzarci dentro con mia cugina Angèle, ma non prima del riposino pomeridiano. Mentre eravamo stese sul divano tra i quadri di San Giuseppe e della Vergine Maria, una luce soffusa entrava dalle persiane accostate; sotto erano allineati dei vasetti pieni di marmellata messa a raffreddare. Qualche raggio di sole ne faceva scintillare il contenuto rosso scuro e giallo brillante, trasformandolo in rubino e oro. Ascoltavo con piacere il ronzio delle api e delle mosche che cercavano instancabilmente di entrare dalla finestra. Quanto amavo quelle melodie! Sognavo a occhi aperti, immaginando di essere una santa in cielo.
All’annuncio della mamma: “Il papà sarà qui domani dopo la messa di Kruth!”, saltai dalla gioia.
Il mattino seguente, il nonno si alzò di buon’ora per lavarsi alla fontana. Immerse la testa e il torso nell’acqua gelida. Poi, osservando i nuvoloni neri sopra la foresta tra Oderen e Kruth, decise che quel giorno, invece di andare a messa, avrebbe messo al riparo le mucche, prima dell’arrivo del cattivo tempo sulla fattoria di Bergenbach. Ero delusa. Mi piaceva tanto accompagnare il nonno a messa!
Osservò: “Spero che Adolphe ce la faccia ad arrivare alla fattoria. Sembra che si stia avvicinando un brutto temporale”.
La nonna e la mamma tornarono di corsa dalla prima messa. Il vento soffiava così forte da obbligare la nonna a trattenere il suo cappello “nuovo”, mentre la mamma litigava col vestito. Arrivarono entrambe trafelate e sbuffando nervosamente. In quel medesimo istante, giunsero anche le mucche che si accalcavano per entrare nella stalla. In previsione di un’interruzione di corrente, zia Valentine, che quel giorno era affaccendata in cucina, iniziò a cercare tutte le candele della casa. Poi corse in giardino per cogliere qualche lattuga, prima che fossero tutte distrutte da un’eventuale grandinata.
Ancora non pioveva, ma il rimbombo del tuono segnalava l’avvicinarsi del temporale. La nonna si rifugiò nell’angolo più nascosto della fattoria col rosario stretto a sé. La sua paura era contagiosa. Angèle cominciò a piangere e sua madre a tremare. Zio Germain divenne bianco come un cencio e a gesti mi incitò a rientrare. Mi indicò il cane che era rintanato nella sua cuccia e teneva la testa fra le due zampe anteriori, implorando con i suoi grandi occhi umidi. Una sfacciata raffica di vento sventagliò le piume della coda del gallo che rientrava nel pollaio per ultimo.
Un gocciolone cadde sulla mia testa e un altro mi colpì il naso, mentre un lampo illuminò Bergenbach. “Uno… due…”, contò il nonno e il tuono rombò. “Il temporale è a soli due chilometri da qui”, concluse. Mi sedetti per terra sulla soglia che separava la cucina dalla stanza vicina e guardai il viso della mamma. Da esso traspariva la stessa preoccupazione che vi avevo letto quando il papà era stato trattenuto in fabbrica.
Poi l’acquazzone scoppiò. “Se ora si trova nella foresta, sarà pericoloso per Adolphe!” La voce di zia Valentine assunse un tono più drammatico, mentre continuava: “Se ne è già uscito, almeno non cercherà riparo sotto un albero”. Poi, rivolgendosi verso noi bambine, ci raccomandò: “Ricordatevi bene, ragazze! Non rifugiatevi mai sotto un albero quando ci sono i fulmini!” Per impedire che il bollito si scuocesse, tolse la pentola dalla cucina a legna e si rivolse a sua sorella che era rimasta silenziosa: “E se corre in cerca di un nascondiglio, il fulmine potrebbe colpirlo!” Mentre alimentava il fuoco con un ceppo umido, continuò il suo monologo: “E non si deve mai correre, mai usare l’ombrello!”
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