Sembrava che zio Alfred provasse piacere nel suscitare polemiche e ci riusciva senza difficoltà, parlando di argomenti irritanti. Il nonno disapprovava il rigore autoritario dei tedeschi. Aveva prestato servizio nella marina per quattro anni e aveva visto con i suoi stessi occhi alla punizione dei marinai ribelli: veniva legata loro una corda intorno alla vita e poi, gettati in mare, erano trascinati dalla nave per ore intere. Quei marinai – pensavo fra me – dovevano essere degli eccellenti nuotatori, per reggere una simile velocità!
La nonna criticava sempre i francesi, perché li considerava dei fannulloni. Non aveva dimenticato che durante la Grande Guerra soldati francesi a corto di cibo avevano requisito le sue mucche e nessuno l’aveva mai risarcita della perdita. Al contrario aveva solo parole di ammirazione per i recenti successi di Hitler in Germania.
Al termine di questi dibattiti il nonno sembrava rimpicciolirsi e la nonna diventare più grande. Le mani di lei si irrigidivano per la collera, mentre raccoglieva bruscamente i piatti da dessert dalla tavola. Quelle stoviglie antiche, decorate con minuziosa finezza, erano bellissime e io temevo che un giorno ne avrebbe ridotta qualcuna in cocci con uno dei suoi gesti troppo energici.
Dopo il dessert Angèle e io sparivamo all’aperto per giocare. Avevo costruito una bambola. A una piccola patata ben rotonda, la testa, avevo incastonato due piccole pietre a mo’ di occhi. L’avevo fissata con un bastoncino a una carota, il corpo, mentre il vestito era una grossa foglia. Mia cugina, una pura cittadina, non apprezzava la mia bambola artigianale. Preferiva sdraiarsi e subito i suoi occhietti blu si chiudevano. Le sue ciglia rosse sembravano delle cuciture a sopraggitto e la boccuccia imbronciata era come una fragolina. Le gote rotonde, belle e rosse incorniciavano un nasino cosparso di lentiggini e i magnifici boccoli dei suoi capelli ramati si spandevano sull’erba verde come raggi di sole. Col suo delicato vestito blu ornato di nastrini diventava la mia bambolina che richiedeva le mie cure. Cercavo una grossa foglia da usare come parasole, poi mi sdraiavo anch’io per terra sotto la felce, godendo del suo profumo familiare. Da quella posizione ascoltavo il ronzio delle api e seguivo con gli occhi la pigra sfilata delle nuvole o l’improvviso balzo di una cavalletta. Immersa in quella pace, riflettevo sulle conversazioni degli adulti cercando di capirne il senso.
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Un giorno la nonna mi regalò un’altra piccola immagine sacra da aggiungere alla mia collezione. Quando mio padre la vide, il suo viso tondo sembrò allungarsi. Inarcò le sopracciglia sbarrando gli occhi e serrò le labbra perplesso. Lessi sul suo volto un grosso punto interrogativo. L’espressione della mamma invece non era né seria né sorridente. Gli angoli della sua bocca si abbassarono e gli occhi fissarono il vuoto. Fece un piccolo cenno con la mano destra e stese tutte e cinque le dita. I miei genitori non erano entusiasti della mia immagine sacra!
“Mettila nel tuo messale”, mi ordinò il papà. Avevo già ricevuto quel messale bianco, ricoperto di madreperla, molto prima di iniziare la scuola. “No!”, replicai risoluta. Quell’immagine benedetta dal prete era un dono della nonna; volevo metterla sull’altare della mia cameretta. “La nonna ha detto che scaccerà gli spiriti cattivi”, protestai. “Lei stessa ne ha appese diverse persino sopra la porta della rimessa!”
Il papà non andò oltre. Lasciò l’ultima parola alla mamma che mi permise di sistemare l’immagine sul mio altare personale. Così mi andava bene. Da quando aveva comprato una nuova macchina da cucire, lei lavorava nella mia cameretta e quindi il nuovo santo avrebbe protetto anche lei.
Seduta sul pavimento col mio orsacchiotto di peluche, rimanevo affascinata dalla grossa ruota della macchina da cucire che la mamma azionava con i piedi. Nessuno avrebbe potuto farlo più velocemente di lei! Adoravo il rumore dei pedali accompagnato dal suo canticchiare. Che soave melodia! Ero incantata vedendo quelle stoffe trasformarsi in splendidi vestiti e in camicie stupende che facevano di mio padre un gran signore.
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Giugno 1936
Un giorno la mamma smise di canticchiare. Camminava avanti e indietro con un’andatura stanca, poi si fermava, nascondendo il volto fra le mani. Di tanto in tanto si alzava e andava a guardare fuori dalla finestra. Quando le domandai: “Mamma, non stai bene?”, scosse la testa e si voltò. Mi sedetti accanto a lei e mi accarezzò i capelli.
Il papà si era recato al lavoro alle tredici e trenta per il turno pomeridiano. lo aspettai inutilmente che mia madre giocasse con me come di solito. Arrivò poi l’ora di andare a letto. La mamma mi accompagnò in cameretta e mi diede l’acqua santa per fare il segno della croce. Recitò una preghiera e, prima di rimboccarmi le coperte, mi baciò teneramente.
Di solito la mamma chiudeva le persiane, ma quella sera si sedette sul bordo del mio letto e rimase in silenzio. Pian piano calarono le tenebre e la luce della luna le illuminò i capelli neri e mossi. La sua carnagione di porcellana aveva assunto un colorito ancor più pallido. Non riuscivo a vedere i suoi occhi blu scuro, ma li sentivo su di me. Lentamente il suo profilo si dissolse. Mi addormentai alle otto, l’orario in cui abitualmente andavo a letto.
Spesso mi svegliavo alle dieci e un quarto di sera, disturbata dal rumore delle biciclette degli operai che tornavano a casa dalla fabbrica. Sentivo il papà mentre sistemava la sua nel garage e saliva gli scalini di legno che scricchiolavano sotto i suoi piedi. Poi faceva girare la chiave nella serratura e apriva la porta il più silenziosamente possibile. La mia cagnolina Zita, che dormiva nel bagno vicino all’entrata, lo accoglieva festosamente e lo seguiva in cucina. Lì il papà si toglieva le scarpe, infilava le pantofole e appendeva la giacca. A quel punto tiravo su la coperta del letto fino al naso e serravo forte gli occhi. Ed ecco il magico momento in cui il papà entrava nella mia stanza, si chinava su di me, sfiorava il mio viso col suo respiro caldo e posava sulla mia fronte un bacio leggero come una farfalla. Le sue mani accarezzavano i miei capelli corti e, mentre fingevo di dormire assaporando intensamente quel soave istante, sentivo su di me il suo sguardo pieno di amore.
Quella notte, invece, mi svegliai improvvisamente con l’angosciante sensazione di essere sola. Chiamai disperatamente e la mamma accorse subito in camicia da notte e con i capelli ondulati raccolti in una retina.
“Dov’è il papà? Non è venuto a darmi il bacio della buona notte!”
“Sst, sono le tre passate. Il papà deve dormire e anche tu!” Si sedette vicino a me accarezzandomi i capelli intrisi di sudore per il panico.
Il mattino seguente il papà non era seduto con noi a tavola per la colazione e non c’era neppure la sua tazza.
“Il papà starà via per qualche giorno”, mi disse la mamma con voce tremula, trattenendo a fatica le lacrime.
Il mio papà ci aveva lasciate! Se n’era andato! Ecco perché negli ultimi tempi mi era sembrato così triste, teso e preoccupato. Ricordai una recente conversazione tra lui e la mamma. “È stato un errore! Non sarebbe dovuto accadere!”, le aveva sussurrato, pensando che non li sentissi. “Adolphe, non ti preoccupare! Può capitare a chiunque di sbagliare!” Come aveva osato la mamma accusare il papà di avere commesso degli errori? Lui non sbagliava mai. Ne ero sicura! Doveva essersene andato via mortificato da quell’offesa.
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