In città non mi era permesso di avvicinarmi troppo alle finestre di casa e tanto meno di uscire per strada da sola. Che tristezza per una ragazzina di campagna! Anche i fiori sul balcone erano prigionieri dei loro vasi!
Fortunatamente tornavamo spesso alla fattoria dei nonni. Viaggiavamo in treno fino a Oderen, un luogo di pellegrinaggio dedicato a Maria Vergine. Da lì un sentiero si inerpicava su per la montagna, costeggiava un fresco ruscello montano, poi saliva bruscamente, arrampicandosi lungo un pendio scosceso, fino a Bergenbach, una pianura verdeggiante ricoperta da diversi tipi di alberi da frutto.
La fattoria dei nonni si trovava tra rocce, felci e boscaglia. Oltrepassata la minuscola porta, occorreva qualche istante prima che gli occhi si abituassero alla penombra e potessero distinguere in un angolo l’ampio camino nero, dove era stata installata una grossa cucina a legna. L’odore del fumo mescolato all’aroma del fieno e dei cereali era per il mio olfatto la fragranza più gradevole. Fuori c’era una fontana di pietra: il placido gorgoglio delle sue acque era stato la dolce ninnananna di tante generazioni.
Negli anni ’90 del XIX secolo la mia nonna Maria aveva lasciato la casa paterna per ritornarvi da vedova con le sue due bambine, Emma ed Eugénie, rispettivamente mia madre e mia zia. Dal secondo marito, Remy Staffelbach, aveva avuto altri due figli: mia zia Valentine e mio zio Germain. Remy era un vero nonno per me.
La nonna era una persona dinamica: dalla mattina alla sera si prendeva cura degli animali della fattoria e si occupava del giardino, mentre gli uomini si guadagnavano da vivere altrove.
La mansione del nonno consisteva nel preparare i colori in una stamperia tessile e zio Germain lavorava in una cava. La nonna era sempre in ansia per lui. Siccome era sordo, temeva che non si accorgesse del segnale che precedeva lo scoppio della dinamite con la quale venivano fatte esplodere le rocce. Così ogni volta che sentiva un boato provenire dalla cava – in qualunque luogo si trovasse e qualsiasi faccenda stesse sbrigando – si fermava e recitava una preghiera per suo figlio. Con le lacrime agli occhi e la voce tremante, la nonna mi narrava spesso la solita storia: “Siccome tua madre voleva diventare suora missionaria in Africa, ci siamo recati al convento per avere informazioni, ma la dote richiesta era troppo alta. Avremmo dovuto vendere tutte le nostre mucche…” Ogni volta che riascoltavo quel racconto mi domandavo se, per servire Dio, fosse necessario un tale sacrificio.
“La famiglia ha preso allora la decisione di mandare la tua mamma a lavorare e di usare parte del suo guadagno per le spese del collegio per sordi dove Germain stava conseguendo un’istruzione scolastica. Così è diventata tessitrice di stoffa damascata e ha incontrato tuo padre, Adolphe, un artista orfano e senza soldi, non un agricoltore purtroppo, ma almeno un buon cattolico!”
Non avevo difficoltà a comunicare con zio Germain. Mi piaceva il vivace linguaggio dei segni che lui stesso aveva ideato.
Lo zio possedeva una decina di alveari e sapeva lavorare il legno, scolpire la pietra e innestare le piante. Durante le nostre visite alla fattoria ci mostrava sempre, con un largo sorriso di autocompiacimento, la sua ultima creazione. La sua più grande gioia consisteva nel rendersi utile. Era molto legato a sua madre e come lei era molto religioso. Anch’io lo ero!
La nonna doveva essere stata molto bella da giovane. L’età non aveva assolutamente scalfito il fascino dei suoi bei lineamenti armoniosi. La sua abbronzatura attenuava l’azzurro intenso dei suoi occhi. I capelli bianchi, raccolti sulla testa in una piccola crocchia, alla luce del sole brillavano come un’aureola. Durante la settimana, la nonna indossava un austero vestito nero protetto da un ampio grembiule, invece la domenica metteva un allegro abito a fiori rosa e lilla, che addolciva il suo viso serio.
Nel corso degli anni la nonna Maria era diventata un po’ robusta, eppure ciò non le impediva di affaccendarsi lentamente, ma senza posa. Appena entravo in cucina, iniziava una vivace conversazione: “Adesso prepariamo la zuppa di patate per il maialino”. Le schiacciava con le mani. “Ora vi aggiungiamo un po’ di crusca, gli avanzi del pranzo, ovviamente senza ossa, e il latticello del formaggio. Vieni, piccola mia, versiamo il tutto nella mangiatoia”. Il naso rosa del maialino si tuffava nella zuppa: ch-ch-ch. “Guarda questo sciocco che cerca prima i pezzi migliori!”
Le galline si radunavano di fronte alla porta della cucina. “Devono essere le cinque. Buttiamo una manciata di grano anche per loro!”
“Sciò! Sciò!”, gridava battendo le mani per tenere indietro i polli più forti che volavano addosso agli altri. “Hai visto, piccolina? Sono proprio come le persone: non hanno nessuna considerazione per i più deboli!”
“Ora è il turno dei gatti. Micio, micio! Venite, ecco il vostro latte”. Era la schiuma del latte della mucca che il nonno aveva appena munto. Ne avevo già gustato la mia parte in una ciotola nera, la mia tazza personale. Una delle micie lasciò prima bere il suo piccolo. “Vedi, questa sì che è una vera mamma!” I gatti venivano a strofinarsi contro le nostre gambe e facevano le fusa. “Guarda come ci ringraziano tutti!”
Appena possibile i miei genitori e io trascorrevamo le domeniche a Bergenbach. Che privilegio per me accompagnare il nonno a messa! Zio Germain usciva di casa sempre dopo di noi, ma in qualche modo arrivava in chiesa per primo! Dopo la funzione andavamo tutti e tre al bar, dove gli uomini del villaggio si ritrovavano a discutere quasi sempre di politica e del loro bestiame:
“Ho comprato una mucca dal venditore”.
“Da quale? Dall’ebreo o dall’alsaziano?”
“Dall’ebreo, e mi ha imbrogliato di nuovo!”
“Perché non vai dall’alsaziano?”
“Beh, sai, è troppo caro! Esagera sempre sulla qualità dell’animale e poi gonfia il prezzo. È disonesto!”
Non riuscivo a seguire il loro ragionamento: se non sopportavano gli ebrei, perché preferivano comunque rifornirsi da loro? Secondo me non aveva senso.
Risalire la montagna per tornare a Bergenbach in piena estate e sotto la canicola di mezzogiorno era, a detta della nonna, un sacrificio che dava maggior valore alla nostra partecipazione alla messa. Sicuramente aveva ragione, però io avrei preferito che non facesse così caldo!
Il viso del nonno era rosso quasi quanto i suoi capelli. Indossava un completo di velluto marrone scuro e teneva la catenella dorata dell’orologio infilata nel taschino della giacca che portava sempre sbottonata; con un fazzoletto si asciugava continuamente il sudore dalla nuca. Zio Germain, correndo come una gazzella su per la salita, ci precedeva e, una volta a casa, si nascondeva e ci aspettava. Quando arrivavamo nelle vicinanze, saltava fuori, accogliendoci con la sua caratteristica risata simile a un nitrito.
La nonna assisteva alla prima messa del mattino, così rincasava in tempo per preparare i suoi deliziosi pranzetti domenicali, incluso ogni tipo di dolce casereccio. Durante i pasti le conversazioni erano sempre animate e interessanti e, fintantoché a tavola eravamo in sei, rimanevano pacifiche. Era tutt’altra cosa quando zia Valentine, la figlia più giovane della nonna, veniva in visita con suo marito Alfred e mia cugina Angèle. Alfred, un uomo di statura alta, monopolizzava la conversazione: sapeva tutto su tutto! Mentre lo zio parlava e parlava, mio padre restava in silenzio. Questo proprio non mi piaceva: il papà era ben più in gamba. Perché non interveniva?
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