Un altro caso relativo sempre a S. Ambrogio, e che sembra richiamare il primo documento analizzato in tale sede, risale al 5 dicembre 863 quando il prete Angilberto da Cannobio ricevette in beneficio i beni precedentemente donati. 50 Angilberto aveva infatti donato pro anima , quando era ancora chierico, alcuni beni che facevano parte del suo patrimonio privato. 51 In quell’occasione gli veniva dunque concesso il vitto al pari dei monaci che vivevano nella cella di Campione, nelle terre che un tempo appartenevano al gruppo parentale di Totone e che erano poi entrate nel patrimonio della basilica ambrosiana con il lascito testamentario del 777 52 , o quello della curtis di Cannobio, posta sulle rive del Lago Maggiore. In cambio Angilberto avrebbe officiato la liturgia riscuotendo in benefitio nomine per il resto della sua vita le rendite dei beni da lui donati a S. Ambrogio per potersi garantire vestiario e calzature. 53 Nel caso avesse mancato ai compiti che gli spettavano in qualità di sacerdote il contratto sarebbe stato annullato e i beni di cui godeva l’usufrutto sarebbero tornati al monastero; se al contrario fossero stati l’abate o i suoi successori a contravvenire all’accordo il prete avrebbe ottenuto come risarcimento una somma di duecento soldi. Da un atto stilato il mese successivo, apprendiamo che la località scelta da Angilberto fu Cannobio. Qui, infatti, l’abate Pietro II venne immesso nel possesso e investito per columna dei beni donati dal prete che sottoscrisse il documento di investitura. 54 Il caso, dunque, richiama da vicino quello di Lucca risalente a più di un secolo prima nel quale, come si è visto, veniva consentito a un altro prete e a sua moglie di vivere per il resto della loro vita presso un monastero dell’episcopio lucchese: in cambio, dopo aver donato i suoi beni al cenobio, il presbitero era tenuto a prestare il servizio sacerdotale. La situazione, d’altro canto, è in parte simile anche a quella di Crescenzio, che avrebbe dovuto gestire i beni monastici come bonus actor et scarius . Anche Angilberto, infatti, era tenuto ad agire come bonus sacerdos per fruire delle rendite prodotte dai beni assegnatigli in usufrutto vitalizio e che rimanevano sotto il controllo del detentore originario, il monastero di S. Ambrogio. Di nuovo è dunque possibile osservare le dinamiche paradossali del keeping-while-giving veicolate dalla concessione in beneficio, ma declinate in una modalità particolare pari a quella emersa dal caso lucchese e molto simile ai due esempi farfensi. Angilberto, primitivo detentore dei beni oggetto della concessione beneficiaria, aveva infatti rinunciato ai suoi diritti di proprietà e li aveva trasferiti a un nuovo detentore. Quest’ultimo poteva dunque assegnare quei beni, divenuti inalienabili, come una sorta di stipendio per i servizi svolti dal prete.
Altre aree del regno invece, pur dominate da importanti enti monastici come S. Silvestro di Nonantola, non restituiscono un quadro così significativo come quello emerso dalla documentazione di S. Maria di Farfa o di S. Ambrogio. 55 Così per il caso nonantolano è possibile osservare l’uso del beneficio unicamente grazie a una fonte esterna all’abbazia: una lettera di papa Giovanni VIII in cui si annunciava la scomunica del vescovo di Verona. 56 Si tratta di una fonte particolarmente interessante dal momento che ci pone di fronte non all’assegnazione in beneficio di alcuni beni monastici ma del monastero stesso e del relativo patrimonio. La lettera venne redatta in un contesto particolare assieme a due altre missive indirizzate nella primavera dell’877 a vari destinatari per rendere nota l’avvenuta scomunica del vescovo Adalardo di Verona. 57 Dal documento in questione, indirizzato all’imperatore Carlo il Calvo, apprendiamo che il monastero di Nonantola era stato concesso in beneficium al presule veronese 58 , un fatto senza precedenti e per il quale il pontefice riteneva offesa non solo la sua autorità ma la stessa dignità imperiale. 59 Adalardo, tuttavia, si era insediato sulla cattedra veronese probabilmente tra la fine dell’875 e l’inizio dell’anno successivo e aveva sostenuto l’incoronazione imperiale di Carlo il Calvo assieme al conte Walfredo di Verona nel febbraio 876, quando compare tra i vescovi presenti alla sinodo pavese durante la quale il sovrano venne elevato al soglio imperiale. 60 È altamente probabile, quindi, che l’assegnazione in beneficio di uno dei principali monasteri del regno fosse avvenuta per volontà del sovrano in segno di gratitudine per il supporto che Adalardo aveva mostrato. Non pare un caso, infatti, che il riferimento alla concessione beneficiaria sia contenuto unicamente nella lettera indirizzata all’imperatore, l’unico che aveva l’autorità per agire in quel modo. Tale concessione aveva tuttavia suscitato uno scandalo che aveva portato alla scomunica del presule affinché potesse ravvedersi e correggere la propria condotta, ed è in tale frangente che venne inviata, tra le altre, la lettera in questione. 61 Dell’abate Teodorico di Nonantola non è dato sapere alcunché in questa fase ma è probabile che rimase nel monastero sebbene delegittimato nelle sue attività politiche e patrimoniali. Era Adalardo che svolgeva ora le funzioni di abate di Nonantola ma tale situazione aveva alimentato il malcontento dei monaci che avevano visto violato il loro diritto alla libera elezione dell’abate e probabilmente furono loro a rivolgersi al pontefice affinché ponesse fine a tutto ciò. Le lettere di scomunica, indirizzate oltre che all’imperatore anche ai vescovi delle tre sedi metropolitiche di Aquileia, Milano e Ravenna e al clero veronese, avevano quindi carattere pubblico ed erano rivolte al contesto sociale di cui Adalardo era parte. Le missive, infatti, sortirono gli effetti previsti e il presule rinunciò dunque al monastero riappacificandosi con il papa che ritirò la scomunica, mentre l’abate Teodorico venne reintegrato alla guida della comunità nonantolana.
Un ultimo caso ci porta a Pavia agli inizi del secolo X e riguarda un conflitto sorto attorno ad alcuni beni monastici tenuti in beneficio. Nell’aprile 915 si svolse un placito presieduto dal messo imperiale Odelrico nel viridarium del palazzo regio, accanto alla laubia dove re Berengario I teneva il placito generale. 62 Si trattava dell’ultimo atto di una controversia che si protraeva da anni tra Teodelassio, abate di S. Colombano di Bobbio, e il marchese Radaldo 63 , scaturita dall’intrusione che quest’ultimo aveva effettuato con i suoi uomini nella curtis monastica denominata Barbada . 64 L’abate, infatti, sosteneva che le case e le famiglie della corte erano tenute contra legem da Radaldo poiché spettavano al monastero. Spiegò dunque ai giudici come Radaldo e il suo avvocato Gotefredo avessero risposto alle lamentele sostenendo che quanto affermato corrispondeva a verità ma i beni contestati non erano detenuti in violazione della legge, dal momento che per lungo tempo la curtis era stata assegnata in beneficio. 65 Radaldo si era dunque accordato con l’abate per presentarsi in sede di placito e porre fine alla contesa, attraverso un atto ufficiale, esponendo la documentazione relativa. Il marchese e il suo avvocato tuttavia, nonostante una lunga ricerca, non riuscirono a trovare alcuna prova documentaria o testimone che potesse dimostrare il diritto a mantenere quei possessi, gestiti fino a quel momento a titolo beneficiario ex regia potestate 66 , e furono dunque costretti a restituirli al monastero di S. Colombano. È evidente che la diatriba era stata risolta prima di presentarsi al placito e in quell’occasione il raggiungimento di un accordo venne semplicemente confermato con un atto scritto che tutelasse il monastero. Tale caso, quindi, consente di osservare come il marchese non fosse in possesso di alcun documento che comprovasse l’assegnazione del beneficio regio, che doveva essere avvenuta oralmente al tempo degli imperatori Guido e Lamberto di Spoleto nell’ultimo decennio del secolo IX. Solo nella primavera del 915, tuttavia, il cenobio riuscì a entrare nuovamente in possesso di quei beni rivolgendosi al tribunale regio di Berengario I. Il particolare secondo cui la curtis era solita essere assegnata come beneficio regio sembra inoltre suggerire un’origine fiscale di quei beni, concessi a Radaldo dai rivali storici di Berengario con i quali il marchese aveva rapporti parentali. È probabile, d’altro canto, che le lamentele da parte dei monaci fossero cominciate subito ma solo dopo molti anni, in una fase in cui Berengario I era ormai rimasto l’unico sovrano a dominare la scena politica del regno e si stava preparando all’incoronazione imperiale, riuscirono a riottenerla con un atto ufficiale a fronte dell’impossibilità evidente da parte di Radaldo di difendere in giudizio le sue ragioni in merito al beneficio conteso.
Читать дальше