Clementine Skorpil - Max Leitner

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Max Leitner ha trascorso ventisei anni in prigione. Per cinque volte è riuscito a evadere. Per cinque volte è stato nuovamente imprigionato. Il romanzo ripercorre la vita di un uomo insolito e contraddittorio. Un uomo che ha derubato banche a mano armata ma che non ha mai sparato a nessuno e non ha mai ferito gravemente nessuno: perché Max Leitner crede in Dio, nella giustizia divina, nei santi e nei demoni.
Basato su eventi realmente accaduti

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Notburga l’aveva consolato, gli aveva messo in tasca un’immagine di Santa Tecla. Non deve mai perdere la fede. Guarda Santa Tecla, quando fu condannata a morte e fu eretta un’alta catasta per il rogo, la pioggia spense le fiamme e un terremoto fece scappare via la gente. Avrebbe dovuto morire giovane e invece è arrivata a novant’anni. Nella sua cella Max aveva rotto la cornice, aveva messo da parte Santa Tecla e aveva tirato fuori il foglio sottile della sega per metalli. Ci sarebbe voluto molto tempo per tagliare qualcosa. Max aveva sollevato il materasso e ispezionato la rete – due lunghe sbarre di ferro, una sarebbe bastata. Aveva aperto lo sportello dell’armadietto, aveva alzato la radio a tutto volume, si era seduto sul bordo del letto e aveva iniziato a lavorare.

La guardia aveva battuto contro la porta, Max si era alzato, aveva messo in ordine il materasso e chiuso l’armadietto. La finestrella del cibo si era spalancata, dentro era comparsa la faccia della guardia, chiazzata di porpora intorno al naso, la voce troppo alta di un’ottava. Doveva abbassare la radio, immediatamente. Non ho sentito l’ordine, aveva risposto Max, la radio era talmente alta… “Ah, questa è la mia canzone preferita!” Max aveva sollevato le braccia, mosso i fianchi, si era girato dondolando il sedere. La guardia aveva sbattuto la porticina proprio mentre la melodia si esauriva lentamente e una speaker mormorava: “Finestre e porte Internorm. Solide e sicure”.

Due settimane a segare, telefonare, organizzare. Erano proprio dei bravi ragazzi, quelli di Innsbruck. Avevano trovato subito qualcuno che poteva aiutarlo, che l’avrebbe aspettato fuori con il denaro, il passaporto e un’auto. Il dottor Rainer era un avvocato formidabile, Max l’aveva fatto venire in carcere per la domanda di trasferimento. Indossava un pullover a collo alto che gli aveva portato Kathi. Max l’aveva provato subito e Julia aveva pianto ancora di più. Il suo papà doveva venire via con loro, perché continuava a restare in questa casa odiosa con questi uomini cattivi? Si era tolto il pullover e aveva accarezzato Julia sulla testa. Erano trascorsi così tanti mesi e Max non era ancora con loro. Aveva nascosto la sbarra di ferro nel dorso del pullover, tra il collo e il cinturino dei pantaloni. Era fatto tutto su misura, niente era lasciato al caso. Misure prese in carcere, dove non c’erano metri avvolgibili e neppure una fottuta squadra come quelle che si usano a scuola, perciò solo misure naturali. Mani, piedi, posate… bisognava lavorare con quel che si trovava. La sbarra di ferro era lunga cinque cucchiai. Cinque cucchiai vanno dal collo alla cintura dei pantaloni. Max si era infilato la sbarra dietro la schiena, poi aveva picchiato così forte contro la porta della cella che tutti i cartelli fissati all’esterno erano caduti. Cartelli magnetici a basso costo su cui c’era scritto che Max era pericoloso. Che c’era pericolo di evasione e che non collaborava.

La guardia aveva spalancato la porta. Il dottor Rainer lo stava già aspettando, ma prima doveva perquisirlo, doveva tastarlo.

“Sei frocio o che cosa? Tira via le zampe.”

La guardia non aveva risposto, si era chinata per toccare le gambe dei pantaloni di Max mentre lui stava fermo con le braccia sollevate e aspettava.

“Girati”, aveva detto la guardia.

“Fa’ il bravo”, aveva brontolato Max. “Vado solo dal mio avvocato.”

“Girati”, aveva ripetuto la guardia.

“Ma vai a dare via il culo e lasciami in pace!”

“Girati”, aveva gridato la guardia.

Max aveva alzato gli occhi al cielo gridando anche lui, poi in fondo al corridoio si era sentito un gran trambusto. Cosa stava accadendo? Qualcuno stava tentando di evadere? La guardia aveva sbuffato – poteva andare – ed era uscita di corsa. Max si era diretto in fretta giù al parlatorio. L’agente nell’angolo gli aveva ordinato di sedersi. Max gli aveva spiegato che aveva dei dolori alla schiena. I letti qui sono una schifezza, sono completamente sfondati. L’avvocato si era mostrato comprensivo e anche l’agente: ah, la sciatica, un vero tormento, senza Voltaren non se ne esce. Il dottor Rainer aveva spinto fuori l’agente di guardia con i problemi alla schiena, Max doveva andare in bagno e con urgenza. Rainer si era seduto e aveva aperto la sua valigetta. La sbarra di ferro premeva contro la schiena di Max, era giunto il momento di usarla. Aveva abbassato il coperchio del water, ci era salito sopra, aveva estratto la sbarra dal pullover e l’aveva infilata nel lucchetto. Adesso bisognava provare a fare leva: lezione di fisica, seconda classe dell’Istituto commerciale.

La scuola commerciale si era rivelata ancora una volta inutile, invece di piegarsi il lucchetto si era piegata la sbarra di ferro. I letti qui – una schifezza! Fuori c’era la macchina, lo aspettavano gli amici che dovevano portarlo di nascosto oltreconfine. Ma l’effetto leva si era dimostrato un fallimento su tutti i fronti. Max aveva rinunciato prima che la sbarra si rompesse del tutto. Come avrebbe fatto a portarla fuori a pezzi? Aveva nascosto di nuovo la sbarra piegata nel maglione a collo alto ed era uscito. Il dottor Rainer gli aveva indicato una sedia. Non poteva certo sedersi, la sbarra sarebbe sbucata fuori dal collo ripiegandosi in giù come i tentacoli di una seppia. Una sbarra d’acciaio che faceva capolino dal pullover era qualcosa che nemmeno il suo avvocato poteva ignorare. Max aveva biascicato qualcosa a proposito della diarrea e del mal di pancia, avrebbero parlato la prossima volta, oggi doveva tornare di corsa in cella.

L’idea della diarrea era buona, Max aveva minacciato le guardie con il rischio di farsela addosso senza riuscire a trattenerla e loro l’avevano riportato subito in cella. Qui aveva rimesso la sbarra al suo posto. Quella notte aveva dormito male: i letti qui erano completamente sfondati.

SEDEVO SU DI UN MASSO

Il mio ufficio era una stanza spoglia e triste in un vecchio edificio vicino al fiume Isarco, non era più grande di quella di Palermo ma meno torrida. In estate gli addetti alle pulizie mi installavano un grande ventilatore che fendeva l’aria calda con un gran ronzio. E sulla mia scrivania troneggiava una macchina da scrivere a testina rotante.

Entrò Sergio Martinelli, era nei Carabinieri da vent’anni. Figlio d’arte, diceva, già il padre era nella Polizia. Martinelli ricordava perfettamente gli esordi della Mala del Brenta a Venezia. Anche prima avevano ripescato parecchi cadaveri dai canali, ma con l’arrivo dei siciliani le cose avevano preso una piega diversa. Erano più brutali, più spietati e più metodici. I criminali del sud incassavano tangenti come erano soliti fare a casa loro, effettuavano estorsioni, trafficavano in armi e droga. E tutti pagavano e tacevano. Nel frattempo la Mala del Brenta si stava espandendo, si diffondeva verso nord. Gli chiesi se le persone qui subissero estorsioni. Sergio inclinò la testa: non sistematicamente, ma c’era una collaborazione con la criminalità locale. Lasciai cadere un nome e Sergio annuì. Gli domandai come si svolgevano le cose. Sergio mi spiegò che i mafiosi riuscivano a sapere dai loro contatti dove c’era qualcosa da prendere e le informazioni erano passate agli interessati. La contropartita era la solita: una quota del bottino, un piacere qui, un appoggio là. Era un sistema molto comodo per i boss, perché non si esponevano direttamente al pericolo e incassavano lo stesso il denaro.

Era possibile infiltrare qualcuno nell’organizzazione?

“Certo”, rispose Sergio. “Ma non me, ormai mi conoscono. Dev’essere uno più giovane, uno che abbia fegato perché questi tizi sono pericolosi. Non stanno a soppesare tanto i pro e i contro. Se ti scoprono sei morto.”

Chiesi se ci fosse uno disposto a prendersi questa incombenza.

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