Clementine Skorpil - Max Leitner

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Max Leitner ha trascorso ventisei anni in prigione. Per cinque volte è riuscito a evadere. Per cinque volte è stato nuovamente imprigionato. Il romanzo ripercorre la vita di un uomo insolito e contraddittorio. Un uomo che ha derubato banche a mano armata ma che non ha mai sparato a nessuno e non ha mai ferito gravemente nessuno: perché Max Leitner crede in Dio, nella giustizia divina, nei santi e nei demoni.
Basato su eventi realmente accaduti

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Max era stato operato due volte, alla coscia e al ginocchio. I colpi di striscio sulla schiena erano guariti da soli, la mano invece era rimasta simile a una zampa, curva e deforme.

Dopo le operazioni era rimasto a letto e solo raramente gli avevano dato delle pastiglie. Le pastiglie lo annebbiavano, Max dormiva per gran parte del tempo e quando non dormiva sentiva la rabbia nello stomaco, come un grumo acido e compatto. Come accadeva anni addietro a Cesenatico quando le suore lo rinchiudevano e non vedeva il sole per giorni interi.

Poi da un giorno all’altro era cambiato tutto. Il viceprimario era venuto tre volte al suo capezzale e gli aveva chiesto come stesse. Gli avevano dato gli antidolorifici tutte le volte che voleva. L’avevano operato ancora, questa volta bene, e una fisioterapista gli aveva massaggiato le gambe e le braccia e spiegato gli esercizi da fare. Era ora, aveva pensato Max. Poi aveva fatto una telefonata in Italia: è finita, stanno seguendo le tracce. Lo riferirò, aveva detto uno che si chiamava Massimo. Max non aveva parlato direttamente con il boss. Non dal carcere, non al telefono. Ma la cosa importante era che i ragazzi non l’avevano dimenticato.

Il detenuto che avevano messo a spingere Max sulla sedia a rotelle si chiamava Michael. Era un misero borseggiatore, l’avevano beccato per la terza volta. Michael l’aveva portato allo spaccio dell’ospedale, lì c’erano vari generi commestibili e Max aveva comprato speck, salamini affumicati, pane e acqua minerale. Mangiare tiene insieme il corpo e lo spirito, si dice.

Davanti alla sua cella aveva trovato degli agenti, dentro era seduto Franco. Max gli aveva dato una pacca amichevole sulla schiena, aveva fatto un cenno verso i tizi in corridoio e aveva alzato gli occhi al cielo. Chi ha paura dell’uomo nero? Franco. Lui aveva paura di tutto e di tutti. Nessuno sapeva l’italiano, Franco si esprimeva a malapena in tedesco e parlava solo con Max. Se si incontravano in corridoio Franco si girava tre volte per vedere se ci fosse qualcuno dietro di lui. I suoi bulbi oculari vagavano a destra e a sinistra, sembrava Buster Keaton in un vecchio film muto. Parlava in modo precipitoso e sconnesso. Una sera stavano seduti nella cella di Max, Franco fumava, aveva spento la sigaretta, aveva preso la successiva dal pacchetto e ci aveva guardato dentro, ne erano rimaste solo due. Max gli aveva messo la sua manona sulla mano. “Guardami”, aveva detto. “Mi è andata male, ma starò di nuovo bene. Non resteremo in carcere. Devi essere contento di non sapere il tedesco, quando ti interrogano sono costretti a prendere sempre un interprete e gli costa dei soldi. Si stuferanno presto!”

Franco non gli credeva. Camminava strascicando i piedi e tenendo le spalle basse, con la testa ritratta come una tartaruga che si rifugia dentro la corazza. Max lo guardava. Fausto si faceva vedere più raramente, avevano preso anche lui. Tutta la sua banda annientata in un colpo solo, erano rimasti solo tre cacasotto e uno storpio.

Max aveva presentato domanda per essere trasferito in Italia. Si era fatto vivo il maggiore Müller: nessuna agevolazione senza qualcosa in cambio.

“Che cosa volete in cambio?”

“Dove avete nascosto le armi? Dove avete depositato l’esplosivo?”

Max si era rifiutato di deporre.

Michael, quello che lo spinge, era entrato nella cella di Max con un amico, un tizio con le spalle larghe, gli occhi azzurri come l’acqua e la testa pelata. Il tipo si era seduto sul letto, aveva dato una pacca sulle spalle a Max, gli aveva detto che era un ragazzo straordinario, poi aveva raccontato di essere dentro per una rapina in banca. Max aveva dato un morso a un salamino duro e sottile. Con un coltello avrebbe potuto tagliarlo a fettine ma non ci sono coltelli in prigione, non si può tenere neppure un temperino. L’uomo continuava a blaterare, raccontava di uno che aveva violentato una donna e aveva tagliato la corda. Dal reparto dell’ospedale, diceva il pelato, si può scappare in qualsiasi momento perché lì non ci sono inferriate alle finestre ma solo pali di cemento. Si possono allargare con un attrezzo a vite. E dove posso prenderlo, aveva domandato Max.

“Lo si può comprare”, era stata la risposta del pelato. “Ne fanno uno di questo tipo nell’officina metallurgica. Bisogna parlare con i detenuti. Però costa…” Il pelato aveva strofinato insieme pollice, indice e medio.

A cena c’erano zuppa di patate e salsiccia con piselli e carote.

Max aveva spedito in officina Michael, che era tornato con un certo Christian. Quest’ultimo si era annotato tutto quello che serviva.

Max è seduto sulla sedia a rotelle e fissa il cielo di fuori. È di un azzurro intenso, non ci sono nuvole, solo una luce forte. In questi giorni è ancora più inquieto del solito, non riesce a tenere ferme le gambe; dondola le ginocchia avanti e indietro, si alza e si abbassa come se dovesse segnalare che è ancora in vita all’“uomo morto”, quel dispositivo che usano i macchinisti. Intanto il treno corre senza sosta e Max non può fermarlo, ormai è partito da un pezzo. Ma nella direzione sbagliata. Dietro di lui c’è la libertà, davanti una detenzione interminabile. “Rapina a mano armata con sparatoria, per una faccenda del genere ti becchi quindici anni”, gli ha detto il maggiore Müller.

Quindici anni. Quando uscirà sarà vecchio, impotente, senza denti e con i capelli grigi. Quindici anni. Max avrà quasi cinquant’anni.

Il congegno a vite avrebbe funzionato? Prima che Max potesse applicarlo ai pilastri di cemento gliel’avevano scoperto sotto il materasso. Era finito in isolamento. Dal reparto dell’ospedale alla cella di isolamento, completamente solo: intorno a lui nient’altro che muri e una minuscola finestra con un’inferriata. Non poter parlare con nessuno per tutto il giorno, fissare il soffitto, essere felice quando una mosca entra per sbaglio nella cella o un ragno tesse la sua tela. Che vivacità, aveva scritto Theodor Storm. Ma Max ha avuto modo di leggerlo solo dopo, quando un detenuto qui a Stein gli ha regalato il libro. Poi Max è andato in biblioteca e ha cercato altri libri di Storm. Ma non li avevano e allora ne ha preso un altro, uno più lungo di Stifter. “Tarda estate” si intitolava, e Max era contento che avesse così tante pagine. Ma poi la felicità è terminata, in “Tarda estate” non accadeva niente. Proprio come qui in carcere, dove non accade mai niente.

GUERRA

C’è mai stato un altro momento in cui mi sono sentito così libero come quell’anno alla fine della scuola? Avevo davanti un periodo infinito di vacanze e poi non sarei più tornato in una polverosa aula scolastica, ma sarei andato all’università a Bologna. Che bella la vita dello studente! Stare in giro fino all’alba senza nessuno che mi facesse il conto di quante cellule cerebrali muoiono a causa di una sbronza. Ah, morire in allegria nella testa di Fabio!

Ero in piedi nella mia camera e stavo infilando le mie poche cose in una valigia e in uno zaino. Paolo mi passò una maglietta nera. La osservai bene e riflettei se fosse abbastanza nera. Disse che gli sarei mancato. Lasciai cadere la maglietta.

“Ma no”, dissi, “ti rimane sempre Violetta!” Era la consolazione più sciocca che mi potesse venire in mente. Cosa se ne faceva un dodicenne di una sorella? Paolo scrollò le spalle. Non mi fece nessun rimprovero, era un bravo ragazzo. Lo strinsi tra le braccia e alla fine gli dissi la verità, che anche lui mi sarebbe mancato. Allora non piansi. L’hanno detto dopo.

Mio padre mi accompagnò fino al treno. Mi avrebbe portato volentieri in auto, c’era molto spazio nel bagagliaio dell’Alfa, ma io non volli. Al momento del congedo disse che era orgoglioso che studiassi a Bologna, l’università più antica d’Europa. Anch’io ero orgoglioso, in qualche modo.

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