Guido Pagliarino - Il Metro Dell'Amore Tossico – Romanzo

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Ranieri Velli, poeta torinese, in un giorno di luglio del 1969 trova in buca una lettera che gli comunica l’assegnazione di un ricco premio letterario per la sua opera poetica tradotta negli Stati Uniti. Poco dopo sono perpetrati attentati alla sua vita, ammantati da incidenti, senza esito grazie alla capacità atletica e all'abilità marziale del bersaglio. Forse s'è trattato di tentativi di vendetta da parte d'uno dei tanti delinquenti che Ranieri, già funzionario di Polizia, aveva assicurato alla giustizia prima di dimettersi? O, com’egli giunge a sospettare, proprio in quel premio letterario va cercato il movente? O ancor più sorprendentemente, può esser motivo una silloge di sue poesie da poco stampata del tutto a sua insaputa? Volato a New York per la premiazione, qualcuno tenta di nuovo d’uccidere il poeta divenuto, suo malgrado, una pedina d’un gioco di scacchi criminale internazionale.
Ranieri Velli, poeta torinese, rientrando a casa in un giorno di luglio del 1969 trova in buca una lettera, spedita da New York, che gli comunica l’assegnazione di un ricco premio letterario per la sua opera poetica tradotta negli Stati Uniti. Poco dopo sono perpetrati attentati alla sua vita, ammantati da incidenti, senza esito grazie alla capacità atletica e all'abilità marziale del bersaglio. Forse s'è trattato di tentativi di vendetta da parte d'uno dei tanti delinquenti che Ranieri, già funzionario di Polizia, aveva assicurato alla giustizia prima di dimettersi? O, com’egli giunge a sospettare, proprio in quel premio letterario va cercato il movente? O ancor più sorprendentemente, può esser motivo una silloge di sue poesie da poco stampata del tutto a sua insaputa? Volato a New York per la premiazione, Velli è accolto all’aeroporto Kennedy da una giovane italo-americana, Norma Costante, carnale bellezza che è stata incaricata dalla Fondazione Valente, organizzatrice del premio, di assisterlo come interprete e accompagnatrice. Ella, prossima al divorzio dal marito, pittore bisessuale che l’ha tradita abbandonandosi a orge con propri modelli e modelle, pare innamorarsi appassionatamente di lui mentre Ranieri, di sicuro, se ne accende; ma un fatto amaro emergerà dal passato della sensuale signora. Nel frattempo anche in America qualcuno tenta, più volte, d’uccidere il poeta, sempre mascherando i propri tentativi criminosi da fortuiti incidenti; e se Ranieri riesce ancora a sfuggire alla morte, ne sono tuttavia colpite altre persone, per primo John Crispy, grosso broker statunitense che amministra le sostanze di Donald Montgomery, giovane dal carattere algido direttore dell’FBI di New York e candidato al Senato degli Stati Uniti: egli forse odia il proprio amministratore perché è prossimo a sposare sua madre, la donna più ricca d’America. Un fatto appare a un certo punto sicuro, che il poeta è divenuto, suo malgrado, una pedina d’un gioco di scacchi criminale internazionale che riguarda in particolare l'Italia, Paese preda, in quell’anno 1969, di violenze sociali e disordini civili. Numerosi sono i colpi di scena, fra l’altro persone credute defunte riappaiono in scena vive, mentre figure ritenute oneste si rivelano viscide e nichiliste. La soluzione del caso arriverà solo verso la fine quando il poeta, salvato all’ultimo momento dal vice questore Vittorio D’Aiazzo suo fraterno amico, sarà rapito e brutalmente seviziato dall'imprevedibile artefice del colossale piano criminoso. In appendice si può leggere il racconto, finora inedito, “Il fu D’Aiazzo”, le cui vicende riguardano i medesimi protagonisti Velli e D’Aiazzo e sono di poco successive a quelle del romanzo: I mezzi di comunicazione annunciano che il vice questore Vittorio D’Aiazzo è stato assassinato; la vittima, in base a forti indizi, appare essere, contro ogni aspettativa, un individuo dalla doppia personalità, onestissimo funzionario della Questura di Torino e viscido delinquente in quella di Napoli, sua città natale. L’amico Ranieri non si dà pace e inizia a indagare.

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Il farraginoso Aristide Maria Barani non sarebbe stato condannato al massimo della pena, nonostante la tentata strage, essendo stato ritenuto seminfermo di mente al momento di commettere il fatto, in quanto, durante il ricovero in ospedale per la ferita, era risultato sotto i postumi d’una sbornia: doveva aver bevuto per farsi coraggio e proprio l'alcol doveva averlo portato ad agire senza gran costrutto; quindi aveva fallito senza mio enorme merito.

Un mesetto dopo era arrivata da Roma la mia promozione a vice brigadiere, per diretto intervento del Marradi come sarebbe corsa voce nell'Ufficio Segreteria, Personale e Benessere della Questura. Va da sé ch'ero stato profondamente grato a quel ministro, rivelatosi capace di riconoscenza a differenza di tanti altri politici; ma non era stato ancor tutto: alcuni giorni dopo avevo ricevuto una lettera da un’importante casa editrice che m’invitava a spedire in lettura le mie poesie per eventuale pubblicazione. Quasi non credendo a tal improbabilissimo fatto – avevo persino pensato allo scherzo di qualcuno –, avevo comunque eseguito; e dopo nemmeno un paio di settimane m’era giunto il contratto di pubblicazione. Ero esploso di gioia. Ne avevo parlato entusiasta in ufficio col D’Aiazzo; e a questo punto avevo saputo dal commissario che il notorio proprietario di quell’editrice era il Marradi. La mia riconoscenza verso il ministro era salita al settimo cielo.

Tuttavia, Aristide Maria Barani non aveva sbagliato giudizio su quell’uomo: un decennio dopo il Marradi s'era realmente rivelato un "ladro farabutto" come il suo mancato assassino gli aveva urlato all’aeroporto: Nel 1967 era finito in uno scandalo politico clamoroso, scoperto dalla Magistratura, secondo i quotidiani politici d’opposizione grazie a manovre sotterranee di ambienti economici ch’egli aveva danneggiati. L’opposizione aveva pur ventilato che avesse potuto mestare più volte anche in precedenza, essendo stato un segretario di Stato di lungo corso che aveva partecipato, a capo dei più svariati dicasteri, a quasi tutti i Governi della Repubblica, da quelli di centro degli anni '50, al gabinetto di centrodestra del 1960 sostenuto dall’esterno dai neofascisti, ad alcuni di centro successivi e, a far capo dal 1963, a quelli di centrosinistra. Certo è ch'egli era divenuto sempre più potente nel corso degli anni. Quanto meno per le ultime malefatte, era stato messo in stato d'accusa dal Parlamento riunito in seduta comune, in base all'articolo 96 della Costituzione Italiana relativo ai reati commessi da membri del Governo: lui solo, anche se l'opposizione aveva manifestato il sospetto che i colpevoli fossero stati molti e "tutti di area governativa". Prima che Camera e Senato avessero concesso l'autorizzazione a procedere alla Magistratura, il Marradi aveva cercato di fuggire all’estero ma, nel tentativo, era morto in un incidente aereo, e questo aveva alimentato il grave sospetto che fosse stato assassinato da complici perché tacesse per sempre.

Nel 1968 l'Italia dell'egemonia democristiana e poi di quella democristiano-socialista aveva cominciato a venir gravemente contestata, erano iniziati scioperi a catena ed era sorto il cosiddetto Movimento Studentesco: per tutti i contestatori i governi di centrosinistra erano da considerarsi nient’altro che servi dei padroni; quanto ai partiti di centrodestra, liberali compresi, tutti semplicemente fascisti. La contestazione avrebbe innescato un formidabile cambiamento nei costumi della popolazione, che sino ad allora erano rimasti in sostanza quelli dei decenni precedenti basati sui valori forti della moralità cristiana persino, almeno di fondo, per gli atei dichiarati.

Era in tale cornice che si preparava l’avventura che stavo per affrontare affiancato dall'amico Vittorio, durante la quale sarebbe spuntato, fra altri, anche il nome del defunto ministro Nuto Marradi.

Capitolo IV

Il D'Aiazzo era uomo cinquantenne robusto ma non alto, attorno al metro e sessantacinque. Inalberava una capigliatura bruna e riccia ancor folta ma che, nel 1969, iniziava a cedere alla calvizie sul vertice della testa, configurandovi un principio di chierica. Forse per bilanciare, da qualche tempo s’era lasciato crescere la barba. Era un eroe della resistenza antinazista il mio amico Vittorio: nel 1943, giovanissimo vice commissario, era stato uno dei combattenti durante la prima insurrezione antitedesca d'Europa, le cosiddette Quattro giornate di Napoli 3, in cui la sua città s'era liberata da sola degli occupanti tedeschi, durante le quali erano rimasti uccisi molti poliziotti della Questura napoletana, fra cui il diretto aiutante in quel tempo del D’Aiazzo, un certo brigadiere Marino Bordin, di cui egli parlava con grande ammirazione. Nonostante l'esteriore allegrezza, Vittorio era persona fondamentalmente triste. Pochi mesi dopo il tentato assassinio del Marradi il mio amico, che s’era sposato nel maggio dell'anno precedente con una donna troppo giovane, una diciottenne figlia d'un collega conosciuta al ballo annuale delle debuttanti, era rimasto vittima d’un grave dispiacere coniugale. S'era tenuto dentro il suo dolore per molto finché, un giorno della primavera del 1958 in cui doveva essersi sentito particolarmente sconfortato perché vi cadeva il secondo anniversario del suo matrimonio, s'era confidato con me, "col mio poeta e amico preferito": Era accaduto l'anno prima che la sua giovanissima moglie avesse conosciuto un ricco importatore americano, ch'era a Genova per i propri commerci, e che fosse fuggita con lui a New York, ottenendo in America lo scioglimento del matrimonio e risposandosi poco dopo con l'amante, com’era stato comunicato a Vittorio per via epistolare dal legale della coppia, su incarico di lei. In Italia non c’era ancora il divorzio per cui Vittorio era rimasto coniugato con la "traditrice"; ma una volta l'amico m'aveva detto, ormai prestavamo entrambi servizio a Torino, che se pur ci fosse stato il divorzio, come cattolico praticante – aveva pronunciato in tono solenne l'ultima parola – non se la sarebbe sentita, di richiederlo. "Sennonché", aveva soggiunto, "malauguratamente" lui aveva "vocazione alla coppia." Insomma, nonostante il suo conclamato cattolicesimo, non era riuscito per molto a rimanersene solo, come avevo presto capito.

Quella sera a cena a casa sua, un appartamento in via Cernaia di fronte alla caserma dei Carabinieri omonima e non lontano dalla Questura di corso Vinzaglio, ci aveva servito e, come ormai d'abitudine, tra una portata e l'altra s’era seduta con noi a tavola una bruna ventinovenne, Carmen, formosetta simpatica e belloccia anche se illetterata e di non ampia mente, che sapevo esercitare per l'amico, oltre alle mansioni di governante, più intime funzioni. Nell'ormai lontano 1959, in occasione del primo invito a cena di Vittorio dopo il nostro trasferimento da Genova a Torino, lui me l'aveva presentata nella sola prima veste e lei, per quella volta, non s'era seduta con noi; ma dall'atteggiamento confidenziale che comunque mostrava, avevo sospettato. "La guagliona è della mia Napoli", s'era confidato già quella volta l'amico, anche se con un certo qual imbarazzo, mentre Carmen era in cucina a preparare il caffè: "È un'orfana senza ’na lira che m’hanno mandato papà e mammà come domestica: forse già te l’avevo detto quand’era arrivata" – avevo assentito –: "Francamente, ero stanco di pizzerie; e anche di essere... solo. Lei è giovanissima... sì, circa com’era mia moglie. Io ho già quarant’anni. Eppure, sai com'è, è finita così, che dopo un po'... siamo ormai... beh, hai capito. Il guaio è… che è ancora minorenne 4; perciò tieni per te la sua età": non aveva potuto trattenere un sorriso imbarazzato; poi: “Va bene, lo so che faccio male, che come cattolico dovrei fare il casto e pure che sto forse approfittando un po' troppo di questa guagliona, anche se lei mi pare contenta assai del mio affetto e pure del mio... beh, hai capito a cosa mi riferisco. Non lo so, spero che comunque il Cielo abbia compassione e perdoni."

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