Quasi diciannovenne, verso la metà di quello stesso terz'anno ripetuto, era il 1952, non desiderando gravare oltre sui genitori che si stavano sacrificando inutilmente, avevo abbandonato la scuola ed ero entrato in Pubblica Sicurezza, come si chiamava allora la Polizia, svolgendovi prima il servizio militare e poi raffermandomi. Solo molti anni dopo, scacciando il timore di restare senza denaro m'ero finalmente dimesso, non trattenuto dall'essermi guadagnati il grado e il maggiore stipendio di vice brigadiere. Rimaneva quella, infatti, un'attività che, col suo pericolo e i suoi disordinati orari, ostacolava la mia passione per le lettere. Ero stato mosso dall'aver avuto un discreto successo. Fin dal dicembre 1957 avevo pubblicato il mio primo libro di liriche presso una grande editrice – svelerò poi l'arcano d'un evento così improbabile – con successo di critica e l'assegnazione alla silloge del celebre Premio Versilia, sezione opera prima, grazie al quale se n'erano vendute ben trecentoventicinque copie; cosa più importante, in seguito al premio avevo ottenuto, come giornalista pubblicista, collaborazioni letterarie alla torinese Gazzetta del Popolo e a un paio di noti settimanali, con accrescimento della mia notorietà. Le mie dimissioni mi avevano portato ulteriori frutti. Grazie al tempo pieno e alle più frequenti collaborazioni, erano stati dati alle stampe un poema e altre due raccolte di versi, queste composte nel corso degli anni precedenti, quello dopo il mio congedo, e i miei versi erano stati tradotti in inglese e francese e pubblicati nei paesi europei anglofoni e francofoni, negli Stati Uniti e in Canada. Senza lasciare il servizio, la vita di Ranieri Velli, la mia vita, probabilmente avrebbe continuato a svolgersi dall’una all'altra indagine al comando dell'amico, allora commissario, Vittorio D'Aiazzo, con poche pause di gioia letteraria, e non avrei raggiunto vera fama; per contro però, non mi sarei trovato negli ultimi mesi del 1969, come vedremo, fra i dolenti protagonisti d’un caso criminale internazionale, per il quale l'Italia avrebbe rischiato di cadere, ancora una volta, sotto un regime dittatoriale.
M'era squillato il telefono. Era la comunicazione con New York. Conoscevo bene la lingua inglese, grazie non solo alla scuola ma a un corso intensivo d'apprendimento a Londra, zeppo di termini giudiziari, cui ero stato indirizzato da Vittorio in uno scambio con sottufficiali di Scotland Yard. Non avevo avuto nessuna difficoltà a farmi comprendere dall'interlocutrice americana: avevo chiesto di parlare col signor Valente spiegando il motivo della chiamata; non era in sede e m'era stata passata una dirigente, le avevo confermato l'accettazione del premio e la mia presenza alla cerimonia di premiazione; e almeno questa era stata fatta.
Ora toccava al passaporto.
Capitolo II
"Oh, amicissimo! Come vanno le tue indagini sulla poesia?" m’aveva salutato espansivo il dottor D'Aiazzo nel suo forte accento napoletano, dopo ch’ero riuscito ad averlo in linea dal centralino della Questura.
"Un premio è giunto ed il poeta chiede", avevo risposto con un improvvisato endecasillabo scherzoso; e avevo precisato: "Ho vinto un importante premio a New York."
In tono compartecipe s'era felicitato, poi, intercalando qualche parola nel suo dialetto come talvolta faceva, e interpellandomi col diminutivo ch'egli stesso aveva a suo tempo coniato, mi aveva domandato: "Va bbuo', Ran, complimenti a parte, che mi chiede o' poeta?"
"Sarebbe per la data di premiazione prossima e per il mio passaporto scaduto."
"Non c'è problema. Fammelo avere qua con le marche e le foto e te lo faccio preparare a ràzzo, che non per nulla in italiano fa quasi rima col mio cognome D'Aiázzo, accenti a parte. Anzi no, fa' così: all'ora di cena mi porti il tutto a casa mia, ore 20 in punto! e così ci facciamo pure una bella spaghettata e due fettine di carne."
"Ottimo, grazie."
Proprio quella sera avevo sofferto la prima aggressione. Avevo pensato alla rapina d’un balordo e solo a un secondo tentativo d’ammazzarmi, non molti giorni prima del volo per New York, avrei inteso che qualcuno mi voleva morto: Uscendo di casa per recarmi a cena dall'amico, ancor prima che avessi potuto chiudere a chiave la porta m'ero trovato davanti un uomo, a una quattro metri da me sul pianerottolo, viso nascosto da un passamontagna e guanti alle mani, che mi s'era avventato immediatamente contro con un rasoio aperto in pugno e aveva provato ad assestarmi un fendente alla gola. Il colpo non m'aveva raggiunto perché io, con una mossa dell'arte marziale che avevo appreso in Pubblica Sicurezza, avevo bloccato a metà l'arco della lama e disarmato il braccio criminale facendo cadere il rasoio a terra; immediatamente dopo, avevo pestato per bene l'aggressore su testa, volto e tronco e l'avevo messo in fuga giù per le scale: ero giovane a quei tempi, agile e atletico e, cosa non trascurabile, molto alto, 1 metro e 90, mentre quell'individuo era di media statura per cui, mirando alla gola, aveva colpito da sotto in su non con piena forza. Non avevo ritenuto prudente inseguirlo. Avevo raccolto e messo in tasca il rasoio per portarlo a Vittorio, chiusa a chiave la porta di casa ed ero sceso evitando l'ascensore e prendendo per le scale guardingo. Come m'ero però aspettato, dell'individuo nessuna traccia.
Avevo raccontato sbrigativamente all'amico la mia disavventura, quindi gli avevo consegnato la lama dell'aggressore.
Aveva commentato: "Sono sempre più comuni le cosiddette rapine iniziate dall'esterno, forse avrebbe voluto suonare alla porta e poi entrare sotto minaccia di quel rasoio per derubarti, ma è stato sorpreso dalla tua imprevista uscita sul pianerottolo e, temendo che tu facessi baccano, ha perso la testa e ti s'è avventato contro, cercando di farti tacere col tranciarti la gorgia. Perché nemici mortali tu non ne hai, no?"
"Non credo proprio."
"Ergo dovrebbe essere stato un tentativo di rapina. Hai detto che aveva i guanti, perciò niente impronte se non le tue. Mascherato, dunque nessun dettaglio del volto, a parte gli occhi scoperti: ne hai osservato forma e colore? e dimmi: era alto, basso, magro, grosso? rasoio nel pugno destro o mancino? e ti ha detto qualcosa?"
"No, neanche una parola, rasoio nella destra, gli occhi non li ho notati nella frenesia della difesa, era alto sul metro e settantacinque circa, magro ma aveva spalle larghe ed è sicuramente prestante e forte perché se l'è filata lesto giù per le scale anche se l'avevo riempito di botte."
"È già qualcosina, ma difficilmente lo troveremo, immagino non sia tanto citrullo da essersi fatto medicare in ospedale, comunque dopo la tua denuncia potremo indagare presso i pronti soccorsi; molto intelligente però non dev'essere, perché se no, non t'avrebbe mollato sùbito un fendente col rischio di finir dentro per un fatto di sangue, t'avrebbe solo minacciato a una certa distanza chiedendoti di rientrare in silenzio o, semplicemente, sarebbe fuggito senza farti niente."
"Hm... sì."
"Ran, domani mattina mi vieni in Questura per la denuncia; però tu capisci che sarà un po’ difficile che lo troviamo, chillo cattamàro 2"
Dato che nulla m’era stato rubato, avevo deciso di tralasciare.
Capitolo III
L'amicizia con Vittorio D'Aiazzo era sbocciata a Genova, lui commissario alla Questura e mio superiore diretto, io agente e poi suo aiutante vice brigadiere promosso per meriti, avendo salvato la vita a un potente ministro, l'onorevole professor Nuto Marradi: In un giorno d'inizio febbraio del 1957 Vittorio, io e due miei colleghi eravamo stati comandati a protezione dell'uomo politico, dal momento del suo sbarco all'aeroporto della città della Lanterna, verso le 10 del mattino, al suo volo di ritorno nel pomeriggio. Un certo Aristide Maria Barani, già indisciplinato impiegato ministeriale e poi anarco-individualista alla macchia, aveva avuto l'infausta idea d'ammazzarlo proprio in quell'occasione; chi sa come e da chi avesse avuto notizia del suo arrivo. Noi avevamo atteso il Marradi nella zona aeroportuale dove, come programmato, l’aereo DC3 Alitalia su cui era imbarcato avrebbe arrestato i motori, e c'eravamo prontamente avvicinati all'aeroplano quand’era stato aperto il portello-scaletta di sbarco. Mentre il comandante aveva chiesto agli altri passeggeri di restare ai propri posti fin a nuovo invito, il ministro era sceso con i due agenti della sua scorta personale. A questo punto l'attentatore solitario, dissimulato da una tuta da inserviente, era sbucato di corsa da dietro un trattore per traino bagagli con in pugno la sovietica Tokarev TT-33 calibro 7,62, pistolona poco precisa ma piuttosto affidabile quanto agli eventuali inceppamenti, e gli s'era lanciato contro alla garibaldina urlandogli: "Lurido ladro farabutto!" Non essendo ancor prossimo all'obiettivo, gli aveva sparato un primo proiettile, andato a vuoto. Io, essendo di retroguardia nel nostro gruppetto e il più vicino allo sparatore – mi ricordo sempre la sequenza come se fosse stata un sogno – con un tiro della mia Beretta d'ordinanza M34 calibro 9, anch'essa imprecisa, per cui di certo aveva contribuito un bel po' di fortuna, avevo ferito l'uomo a una gamba rompendogliela e facendolo crollare a terra; poi alla svelta, con un calcio, gli avevo tolto l'arma di mano. Vittorio, al contrario di me, era in testa alla nostra squadra e il più vicino al ministro, a parte la sua scorta personale, per cui senza il mio intervento sarebbe stato non improbabilmente colpito da uno dei successivi colpi dell'anarchico.
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