I panorami e i suoni dell'antica città mi interessavano molto, ma non era la città del 1941 che prendeva vita quel martedì mattina a tirarmi il cuore: era la Mandalay del 1933. Erano passati otto anni, ma la sua immagine era solare come la scena della strada sottostante. Quante volte io e lei avevamo passeggiato insieme lungo...
Un forte bussare alla porta mi fece trasalire. Nessuno sapeva che ero tornato a Mandalay, ma pensai subito a Kayin.
Gli inglesi la chiamavano ‘Eurasiatica’, sangue misto, un'intoccabile. Sua madre era birmana e suo padre un soldato scozzese delle Highlander. Era un bombardiere d'artiglieria nella prima guerra mondiale, assegnato ai lancieri del Bengala. Kayinaveva ereditato la figura minuta di sua madre e i tratti asiatici dalle tinte tenui, insieme agli occhi del padre, blu come il cielo del porto di Aberdeen nel mese di maggio...
Bussarono di nuovo, più forte e con grande urgenza. Quando aprii, fui colpito da una rabbiosa raffica di parole birmane che arrivarono così velocemente che non capii quasi nulla di quello che disse. La donna era sulla sessantina e mi era vagamente familiare, ma troppo vecchia per essere Kayin. L'esplosione raddoppiò quando le sue mani si agitarono in aria per animare l'arringa. Il suo sguardo non incontrò mai il mio, ma piuttosto guizzava oltre il mio orecchio sinistro, come se la sua rabbia fosse diretta ad un'altra persona da qualche parte dietro di me.
La povera donna era afflitta da un grave caso di ipertelorismo, una condizione medica in cui gli occhi sono troppo distanti fra loro. In aggiunta alla deturpazione della donna, il suo viso era compresso verticalmente a sinistra perché le mancavano tutti denti da quel lato. La furia delle sue emozioni contorse i suoi lineamenti irregolari in una maschera di rabbia intensa.
Volevo chiudere la porta in faccia all'arpia dai capelli grigi, ma lei anticipò la mia azione facendo un passo verso di me, quasi inciampando su qualcosa ai suoi piedi. La sua mano ossuta afferrò il bordo della porta reindirizzando la sua ira verso il basso e continuando il suo rimprovero con la sua lingua affilata.
Abbassai lo sguardo per vedere cosa avesse causato la sua rinnovata ira. Davanti alla donna c'era una bambina. Spaccato e arrotolato sulla sua spalla, pendente da una cinghia di cuoio, portava un materassino da letto in bambù. Con il viso all’insù, mi guardava con la serenità di unangelo, ignaro della tempesta verbale che infuriava sopra la sua testa.
Il mio polso reagì con fluttuazioni voltaiche quando mi resi conto che la vaga familiarità della vecchia donna era duplicata, ingigantita, nel volto della bambina. Aveva sette o otto anni, e il suo viso era, in contrasto con quello della donna, il più perfetto possibile. I suoi lineamenti erano perfettamente simmetrici, come se fossero stati disegnati con cura da un maestro scultore o da un ritrattista esperto. Il naso, gli occhi e la bocca erano perfettamente posizionati sulle morbide curve di una tela a forma di cuore. I lunghi riccioli scuri cadevano in turbini per incorniciare le dolci e innocenti guance fulve. E i suoi occhi... che affascinanti occhi blu.
La voce della vecchia mi assalì ancora una volta. “Kayin” fu una delle poche parole sputate che riuscii a riconoscere. Cercai di tradurre il suo rapido birmano in inglese, ma lo interpretai come:‘andato e passato’... ‘tu, fannullone, buono a nulla, maledetto, vai via, figlio americano di arraffa-biscotti’... ‘Rama non è morto e mi ha resala Salvatrice di tutti i bambini perduti’... ‘non posso, ma solo nutrirmi da ieri’.
Cercai di interromperla per chiederle di Kayin, ma lei chiuse la porta, lasciando la bambina dentro con me. Il battito dei piedi nudi della donna percorse il corridoio, poi svanì..
Io e la bambina ci fissammo, il suo viso senza la minima traccia di emozione e il mio, immagino, con un'espressione incredula per quello che era appena successo. Sentire la donna pronunciare il nome di Kayin mi aveva colpito duramente, ma cercai di ammorbidire la mia espressione per la bambina.
Ero appena riuscito a riorganizzare il mio shock in un'espressione gentile quando sentii un leggero tocco alla porta.
"Grazie al cielo, è tornata a prenderti".
Aprii la porta e presi la ragazza per la spalla, spingendola delicatamente fuori in quelle che mi aspettavo fossero le braccia aperte di una vecchia donna pentita. Con mia sorpresa, non c'era nessuno, almeno non all'altezza degli occhi. Ma quando abbassai lo sguardo, apparve un'altra bambina! Una copia esatta della prima, compreso il materassino. Le due si guardarono per un momento, senza sorpresa, con un faccino sereno. Poi, all’unisono, si voltarono a guardarmi.
Mi affacciai sopra di loro, dando un'occhiata lungo il corridoio. Non vidi nessuno; né la vecchia, né un fattorino, né altri ospiti. Poi controllai entrambi i lati della porta, assicurandomi che un terzo o quarto bambino non stesse aspettando per lanciarmi quello sguardo così innocente dagli occhi blu. Le ragazze copiarono ogni mio movimento, guardandosi attorno, poi di nuovo verso di me, ma né loro né io vedemmo altri bambini.
Grazie a Dio!
Le ragazze si presero per mano e mi superarono nella stanza. Andarono al divano di rattan imbottito, si sedettero e si sistemarono, con i piedi nudi penzolanti nell'aria. Capii dai rigonfiamenti irregolari delle loro stuoie arrotolate che non servivano solo per dormire, ma portavano anche tutti i loro averi. Le due ragazze le sistemarono sulle proprie ginocchia e si accomodarono sul divano.
Chiusi la porta e mi sedetti sulla sedia di rattan di fronte alle ragazze. La sedia accanto a me era vuota, ma piena di una presenza spettrale. Era quasi come se Kayin fosse morta e mi avesse lasciato due piccole copie di sé.
"Cos'è successo?" Non volevo che la domanda si disperdesse nell'aria; avrei voluto rivolgerla alla sedia vuota.
Quando guardai le ragazze, non vidi segnali di comprensione alle mie parole.
"Cos'è successo a Kayin?"
Sapevo che le ragazze dovevano essere nervose, spaventate, o almeno incuriosite dal magro straniero davanti a loro. Con la mia carnagione cinerea, gli occhi infossati e la struttura sottile, non ero un granché da vedere. Ma anche alla loro giovane età, avevano già imparato l'abilità asiatica di non far trapelare alcuna emozione dalla loro faccia. Tuttavia, mi sembrò di vedere un impercettibile tic in un occhio della ragazza sulla destra.
Mi appoggiai alla sedia, guardandole. La mia mente vagava, a volte senza meta, ma sempre tornando all'incubo senza fine degli otto anni che avevo perso.
Non ricordo quando avevo notato per la prima volta i miei sintomi. Forse quando Rajisoffriva l'astinenza da morfina dopo averla operata. Avevo una leggera febbre, respiro corto, niente di cui preoccuparsi. Intorno a me c'erano uomini che soffrivano e morivano a causa di ferite orribili, e Raji aveva passato l'inferno. Perché avrei dovuto preoccuparmi di una leggera febbre?
"Ora facciamo visita al bagno".
Venni scosso dai miei ricordi di Little Miss Right Side, che mi parlava nel suo inglese britannico quasi perfetto.
"E quando usciremo", disse sua sorella, "potremmo avere un po' di fame, probabilmente".
Sbattei le palpebre. Lo fecero anche loro ma non si mossero dalla loro posizione sul divano, in attesa, presumo, del permesso di andare in bagno.
"Sì, certo". Indicai dall'altra parte della stanza una porta chiusa. "Lì c'è il gabinetto. Andate pure, se volete".
Scesero dal divano senza dire una parola e si diressero rapidamente verso il bagno. Notai che si erano portate dietro i materassini, tenendoli stretti.
Mentre le ragazze erano in bagno, tornai al punto in cui mi trovavo prima che bussassero alla mia porta, camminai ed esaminai le caratteristiche della stanza come una fotografia sgualcita e consumata di un lontano passato. C'era la familiare scrivania, un tavolino basso tra il divano e due sedie, un letto con comodini e lampade a destra e a sinistra, immagini di montagne, uccelli e diRe Rama IV alle pareti. Una zanzariera pendeva sopra il letto, ordinatamente legata all'indietro durante il giorno.
Читать дальше