Gemma Cates - Voglio Morderti Il...
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Cazzo!
Avevo due minuti. Non avevo intenzione di perdere quel patetico pezzo di merda di sfida proprio il primo giorno. Avevo cercato il link e mi ero rapidamente registrata, riuscendo appena in tempo a presentarmi alla prima seduta in programma.
Sul display c’era un timer che visualizzava un conto alla rovescia; erano rimasti ventisette secondi. Mentre quei secondi scorrevano all’indietro, il mio Io stanco, con i postumi della sbornia, ma non ubriaco, aveva considerato che da quella stupida sfida Oliver non avrebbe guadagnato assolutamente niente.
Quell’uomo doveva sapere che ero stata sul punto di accettare di uscire con lui. Se si fosse solamente preso la briga di chiederlo di nuovo, avrei detto sì.
E a cosa sarebbe servito, a entrambi, un mese di fottuto yoga?
Quando la prima seduta era cominciata, mi ero resa conto di come esattamente mi avrebbero fatta sentire i successivi trenta giorni di yoga mattutino.
Arrapata.
E frustrata.
Probabilmente anche con tendenze omicide, se l’immagine sullo schermo era un assaggio dei successivi trenta giorni.
Oliver era l’istruttore.
E no, Oliver non aveva la pancia da queso. Non aveva nemmeno un pacco da sei. 1
No, aveva un pacco da otto, di cui riuscivo a vedere ogni cresta e ombra – persino sul minuscolo schermo del mio telefono – perché l’essere divino precedentemente conosciuto come Oliver, detto Figo Peloso, era a torso nudo.
E che cazzo indossava come pantaloni?
Mi era venuto bisogno di farmi aria.
Pantaloni, un corno. Non erano nemmeno pantaloncini. Sembravano più degli slip.
Beh, non coprivano solo le natiche. Saranno stati a mezza coscia, ma mentre lui si muoveva, gli short, che aderivano ai suoi glutei muscolosi, mostravano flash dei suoi quadricipiti gonfi.
Avevo inspirato profondamente, come da sue istruzioni, poi avevo cominciato a seguire il divino Oliver e la sua voce flautata mentre mi guidava in una routine yoga di venti minuti.
Come avrei fatto a gestire una cosa del genere per trenta giorni?
3
Avevo finito la routine yoga, ma non mi sentivo Zen né rilassata, né come cazzo ci si dovrebbe sentire dopo aver fatto yoga all’alba.
Mi sentivo arrabbiata.
Frustrata. Dal punto di vista sessuale, naturalmente. Chi non lo sarebbe stato dopo aver guardato Oliver Watson e il suo perfetto, potente corpo muoversi fluidamente su un grande schermo per venti minuti? (Sì, ovviamente avevo trasferito il suo corpo sensuale sul mio televisore a grande schermo. Quell’uomo era un’opera d’arte.)
Sciocca. Mi sentivo decisamente sciocca. L’ubriachezza non era una scusa sufficiente per impegnarmi trenta giorni in quello.
E testarda, perché anche se potevo porre fine al mio tormento – o guardarlo su uno schermo più piccolo – non volevo. Avevo intenzione di vincere questa sfida, anche se avessi dovuto vivere in uno stato di arrabbiata frustrazione sessuale per il mese successivo.
Dopo avere provato, senza riuscirci, a ritornare a letto – apparentemente lo yoga arrabbiato mi aveva dato energia – avevo preso una tazza di caffè. Poi un’altra.
E proprio mentre stavo per chiamare Becca – perché chi, meglio della mia migliore amica, poteva capire il mio irrazionale bisogno di continuare questa sfida nonostante la follia che era il corpo mezzo nudo di Oliver Watson? – mi chiama lei.
Con un problema. Uno di quelli seri, che richiedeva il mio totale supporto emotivo. Il mio problema, che era minuscolo e auto-inflitto, avrebbe dovuto aspettare.
Il riavvolgimento della percezione di Becca dava i numeri, la qual cosa, sinceramente, mi spaventava. Senza la capacità di accedere ai ricordi recenti di un donatore umano per manipolarli, come avrebbe fatto a nutrirsi?
I vampiri non hanno bisogno di molto sangue fresco per sopravvivere, ma senza una piccola quantità a intervalli regolari noi soffriamo di privazione di sangue (che non è bello) e poi di inedia da sangue (potenzialmente fatale).
E poiché i vampiri sono sempre stati un grande, grosso segreto, lei non avrebbe potuto semplicemente andarsene in giro per la città a mordere persone a caso senza alterare la loro percezione del morso. Avremmo risolto la cosa, e nel frattempo mi sarei assicurata che ricevesse il suo nutrimento, ma la faccenda restava preoccupante. Il nutrimento di squadra non sarebbe stato una buona soluzione a lungo termine, per cui dovevo avere fede nel fatto che avremmo trovato un sistema.
E come se non bastasse, la mia migliore amica soffriva anche di un caso di forti emozioni, il che era… complicato.
I suoi problemi erano decisamente più grandi dei miei. Questo era uno di quei momenti nell’amicizia in cui io dovevo essere quella che sosteneva e non quella da sostenere.
Dopo avere parlato con Becca dei suoi problemi, avevo bevuto un’altra tazza di caffè e avevo deciso che era ora di chiamare gli altri miei rinforzi. Becs era la mia persona di riferimento. L’amica più intima che avessi. E sebbene non le avessi rivelato alcuni segreti (per il suo stesso bene), lei mi conosceva meglio di chiunque altro.
Ma, in realtà, avevo altre amiche. Poiché volevo limitare l’umiliazione della sfida a seguito dei miei messaggi da ubriaca, per quanto possibile, dovevo scegliere: Yvette o Kayla?
Kayla, ultimamente, non si era fatta viva molto. In parte perché viaggiava per lavoro, ma anche quand’era in città era sempre difficile da trovare. Stava affrontando qualcosa. Avevo provato a contattarla, ma era una persona riservata, per cui non ero rimasta sorpresa quando aveva dichiarato che andava tutto bene. Tutto quello che potevo fare era offrirle di esserci – e magari non scaricare su di lei il mio dramma personale.
Quindi, Yvette era la fortunata vincitrice della mia lotteria dell’eccessiva condivisione.
Yvette era un tesoro. Un tipo dai modi grezzi, ma per me andava bene così. Se fosse stata del tutto arrendevole, beh… l’avrei lasciata perdere.
Lei ascoltava e mi dava dei buoni consigli. Dopo se la faceva sotto dalle risate. Ma io meritavo di essere derisa; la me ubriaca era un disastro.
Oltretutto, Yvette era stata alla festa ieri sera. Magari aveva notato Oliver.
Avevo deciso che potevo parlare e lavoricchiare in casa allo stesso tempo. Ero più che sveglia, per cui avrei anche potuto dedicarmi alle mie tradizionali pulizie post-festa, quelle che facevo dopo ogni festa alcolica che davo. Era più un riordinare post-festa, perché il servizio di pulizia era programmato per lunedì, ma doveva ancora venire e io potevo decisamente lavorare in multitask.
Yvette aveva risposto subito, un buon segno poiché era abbastanza presto. Lei non era rimasta alzata fino alle 3:17 a scrivere messaggi da ubriaca a un musicista barista.
“Qual è l’emergenza? Passo a prenderti e ti porto all’ospedale?” Non sembrava in preda al panico, quindi quella era la sua idea di essere spiritosa.
“Per quello c’è Uber. Ho bisogno di un consiglio.”
“Per quello ci sono le ambulanze, Megan. Che la dea ci salvi. E non sono sicura di avere preso abbastanza caffeina per qualsiasi cosa tu stia per dirmi.”
Pura Verità. Non telefonavo di frequente, preferivo mandare messaggi. E chiedevo consigli con ancora minore frequenza.
“Prepara il caffè mentre ascolti.” Ma il mio suggerimento non era necessario. In sottofondo potevo sentire scorrere l’acqua dal rubinetto. “Ricordi il bambinone peloso di ieri sera?”
“Tu pensi che qualunque uomo che non indossi un completo a tre pezzi sia un bambinone. Sii più specifica.”
Forse una quarta tazza di caffè era una buona idea. Decisamente.
Dirigendomi in cucina avevo detto, “Viviamo a Austin. Nessuno indossa un completo a tre pezzi, a meno che non vada a un matrimonio.”
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