“Senti Emma. Sai che vorrei avere qualcuno al mio fianco con il quale condividere tutto, ma per il momento la situazione è questa e cerco di vivermela bene. I miei trent’anni me li voglio godere. Chi sa quando la mia prostata si deciderà ad andare in pensione.” Mi venne da sorridere al giramento di occhi di Emma. “Pensi che non abbia voglia di un Phil tutto per me? Quando incontrerò uno come lui cercherò di pensarci su, mentre me lo ciuccia”, ghignai.
“Non cambierai mai”, disse rassegnata, scuotendo la testa. “Finocchio e maschilista. È davvero troppo per me", rise. "Andiamo che è tardi. Devo ancora lavare i capelli e mettermi la maschera. Domani mi devo svegliare presto, perché il mio collega non ha voglia di cambiare turno.”
Di solito avrei lasciato ad Emma il venerdì, considerato anche che era la festa della donna. Ma avevo appena preso qualche pezzo mancante per il mio piccolo giardinetto dietro casa e mi aspettava un weekend di lavoro.
Pagammo e lasciammo la pizzeria dopo aver salutato Toni.
Sono sicuro che, se per una forza divina fossi diventato etero, Emma sarebbe stata la donna della mia vita. È bella, intelligente, mi fa ridere e, cosa più importante di tutte, ride alle mie battute.
Ci salutammo con un abbraccio e un bacio prima che Emma salisse sul taxi che stava già aspettando. Seguii la macchina con lo sguardo fino a quando sparì nel buio. Io, invece, come spesso accadeva, tornavo a casa a piedi. Era inutile ammazzarsi in palestra, se poi si finiva da Toni, pensando di poter vincere la guerra contro le sue specialità culinarie. Qualche chilometro a passo spedito era il minimo.
Quando arriverà il mio Phil?, mi chiesi, mentre camminavo lungo la strada. Adoro ancora oggi le passeggiate di notte. La città sembra riposarsi dalle fatiche giornaliere e dal caos, dallo stress della gente e dalle urla. È rilassante. Hai tempo per riordinare i pensieri. Provavo ad immaginarmi come sarebbe stato arrivare a casa, il mio ragazzo ad aspettarmi, seduto in boxer sul divano. Allora ero talmente abituato a stare per conto mio, che mi avrebbe quasi dato fastidio condividere il mio regno con qualcuno. Per questo sceglievo le mie scappatelle in questo modo: o hai una casa tua, altrimenti saluti e amici come prima.
Sono troppo orgoglioso della mia casa, comprata con l’aiuto dei miei qualche anno fa. Situata in un quartiere tranquillo nella periferia di New York, è semplicemente perfetta per me. Due piani: sotto cucina, salotto e toilette da giorno, sopra invece camera da letto grande, una piccola cabina armadio, un grande bagno con vasca e doccia e tutto ciò che serve per rilassarsi dopo una giornata di lavoro pesante, o dopo essersi spaccati in due in palestra. Però, occhio, il fiore all’occhiello è il mio piccolo giardino che dà sul lato posteriore della casa. Se prima era stato usato soltanto per tenerci il bidone dell’immondizia, con un po’ di fatica e qualche soldo, l’avevo trasformato in un’oasi del relax.
Più ci ragionavo, più questa casa grande mi faceva sentire solo. Ripensando all’amore tra Emma e Phil l’idea di avere qualcuno ad aspettarmi, pronto a stringermi tra le braccia guardando la TV, non mi dispiaceva affatto. Certo, ci sarebbe stato bisogno di abituarmi ad avere qualcuno tra i piedi, ma l’avrei fatto con piacere.
Se solo quello giusto si fosse fatto vivo. Esisteva? Fare compromessi non era mai stato un problema per me. A casa mia si viveva di compromessi. I miei mi avevano insegnato che per avere qualcosa, bisognava dare qualcosa. E se l’amore, quello vero, quello fiabesco, mi avesse ridotto ad un essere incapace di vivere senza la presenza dell’altro, fare dei compromessi sarebbe stato facile come respirare.
Ciò che mi preoccupava di più era il tempo. Il fatto che passasse senza tregua. Anche per me. Compiere trent’anni, ritrovarmi con un lavoro che amavo, pochi amici ma veri e una casa propria, era più di quanto ci si sarebbe potuti aspettare. Solo una cosa, quella più naturale, quella più desiderata, sembrava non voler arrivare. La persona che secondo alcuni doveva esserci per ognuno di noi, aveva delle grosse difficoltà a trovarmi. Forse è meglio smettere di cercare, mi dissi da solo. Alla fine è così anche quando perdi qualcosa a casa, no? Appena non la cerchi più, ti trova.
Ero sovra pensiero quando udii un rantolo. Prima avevo pensato ai gatti randagi che si aggiravano sempre per le strade. Ma era troppo diverso dai soliti rumori animali che si sentivano di notte. Ero sicuro che si trattasse di un lamento umano. Mi fermai a guardare prudentemente nel vicolo buio davanti a me. Un brivido mi corse lungo la schiena quando sentii di nuovo quel rumore, adesso chiaramente decifrabile come umano. Davanti a situazioni sinistre come quella, un istinto sano avrebbe invitato a scappare, mentre a me spingeva sempre dritto nelle braccia del nemico chiamato guaio.
“C’è qualcuno?” sussurrai.
Cavolo, stavo per farmela addosso. In una città grande non puoi mai sapere le ultime tattiche dei criminali per attirarti in qualche angolo oscuro, derubarti e riempirti di botte. Ma qualcosa mi disse che la situazione era diversa e il mio carattere da salvatore dell’umanità prevalse. L'adrenalina mi usciva quasi dalle orecchie.
“Cazzo…” , sentii qualcuno mormorare.
La voce era maschile, giovane. Gli occhi mi si stavano abituando al buio e riuscivo a vedere dei bidoni dell’immondizia, dietro ai quali si muoveva qualcosa che mi sembrava un paio di gambe. Passo dopo passo mi avvicinai, le mani già trasformate inconsciamente in pugni pronti a difendermi.
“Ehi, tutto bene lì?”
Avevo il cuore in gola, il respiro sempre più veloce. Non direi che fosse panico ciò che provavo, ma di sicuro un parente non troppo lontano.
“Tutto a posto” , mentì la voce tossendo.
Da come suonava, era palese che non fosse a posto proprio niente. Sicuramente aveva bisogno di aiuto e non avrei chiuso occhio tutta la notte, sapendo di aver lasciato lì qualcuno che stava male. Appena mi fui avvicinato abbastanza da poter guardare dietro i bidoni, mi fermai un attimo. Respira, mi dissi con il cuore pronto a saltarmi fuori dal petto. Lo spettacolo che mi si presentava davanti era alquanto bizzarro. Un ragazzo era seduto, o meglio, sdraiato per terra. Labbro inferiore spaccato, sanguinante come il naso. Era senza maglietta, i jeans sporchi e sbottonati. E la cosa più bizzarra era quel sorriso malizioso. Anche se non sembrava del tutto presente mi puntava. Come cavolo faceva a sorridermi in quel modo, messo così?
“Ti serve una mano?”
??? Che cazzo di domande fai?, mi chiesi. Mi misi in ginocchio per guardare meglio quel pazzo che continuava a sorridermi.
“Hai bisogno di un medico.”
Bravo, osservazione azzeccata.
“A dire il vero, se mi dai una mano ad alzarmi, ti sarei grato”.
Lo tirai su reggendolo subito con un braccio perché barcollava. Secondo me quel poveretto non si rendeva conto di come era messo davvero. Forse era talmente fatto che non sentiva niente. Gli lanciai uno sguardo sulla patta aperta dei pantaloni per fargli notare che era aperta.
“Dovresti… ehm… hai i jeans aperti.”
E quelle, di solito, sono le situazioni nelle quali posso cercare di essere il più tranquillo del mondo, ma le mie gote si colorano in pochi istanti di un intenso colore rossastro, giusto per sputtanarmi e urlare al mondo: DANIEL È IMBARAZZATO! Odio quella reazione fisica! Premetto: il ragazzo non portava intimo di alcun tipo. Un bottone in più e le sue grazie avrebbero potuto penzolare liberamente all’aria fresca.
“Beh, dal colore del tuo viso mi sembra che non ti dia sto gran fastidio” , disse, il sorriso ancora più malizioso di prima.
Mentre si chiudeva i bottoni dei jeans, non mollava i miei occhi per un’instante. Quel sorriso mi toglieva il respiro. Denti perfetti contornati da labbra perfette. Se la situazione non fosse stata quella, avrei giurato che ci stesse provando. Forse aveva battuto la testa talmente forte e ora non sapeva più cosa stesse facendo.
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