In casa potevo fare ed avere ciò che volevo, purché seguissi le regole della famiglia Clark:
Impegnarsi a scuola, ottenendo buoni voti
Prima del tempo libero fare i compiti
Essere educato sempre e con chiunque
Dire sempre grazie e prego
Svolgendo i miei genitori entrambi dei lavori rimunerativi, sommato al fatto che ero figlio unico, mi viziavano parecchio, evitando di creare un demonio irresponsabile e fuori controllo alla Paris Hilton con le loro poche ma severamente imposte regole.
La prima volta che andai contro il volere dei miei era dopo il primo anno di università. Stavo studiando medicina come aveva voluto mamma e mi impegnavo al meglio come sempre. Finito l’anno e tornato a casa, era il 1999, avevo detto a loro che avrei lasciato l’università e che avevo già trovato lavoro in un centro d’accoglienza per anziani. Certo, l’entusiasmo da parte dei miei era alquanto contenuto. Avevano cercato di farmi ragionare sul punto di vista economico, che come medico avrei avuto delle possibilità finanziarie molto superiori. Ma alla fine rispettarono la mia scelta.
Ero una persona semplice. Praticamente non avevo vizi. Uscivo poco e quindi i soldi che guadagnavo mi erano sempre bastati. E, ammetto, sapevo che mamma e papà non avrebbero mai chiuso del tutto i loro “rubinetti”.
Non mi sono mai pentito della scelta che avevo fatto allora. Adoro il contatto con le persone anziane, le loro storie di passati lontani. Cerco di assorbire il più possibile dei loro racconti. Sono convinto che la maturità non sia legata prettamente al proprio vissuto, ma anche alla quantità di anni vissuti. Per me i nostri pazienti sono una miniera di saggezza.
Le giornate passano in un batter d’occhio, tra le chiacchierate quando lavoro in diretto contatto con gli anziani. Quando invece c’è poco lavoro, mi faccio passare il tempo con la mia migliore amica, Emma. Stiamo dietro il bancone della reception e parliamo e sparliamo di tutto e tutti.
Ci eravamo conosciuti qui e per entrambi era stato amore a prima vista. Beh, per Emma era stato proprio amore. Avevo una presenza piacevole: alto, educato, la sua stessa età e nato in una buona famiglia. In più facevo il suo stesso lavoro. Però avevo messo tutte le carte in tavola alla prima occasione. Alla domanda, se avessi già la ragazza, fui sincero e le raccontai dell’ultima avventura con un ragazzo di colore.
Mi ero accorto immediatamente che non avevo dato la risposta attesa, ma dopo qualche giorno di imbarazzo eravamo diventati amici inseparabili. Lei aveva finalmente trovato una persona alla quale poteva raccontare le sue disavventure con i maschietti, senza essere giudicata. In più aveva la possibilità di guardare dietro le quinte dell’universo maschile.
Solo una questione ci aveva divisi da sempre. Emma era l’eterna innamorata. Si infatuava per una rosa, per galanterie banali (e spesso palesemente studiate per fare ‘goal’) oppure per una cena offerta. Bastava che uno le aprisse la portiera della macchina e già udiva la marcia nuziale suonare in lontananza. Il suo ideale era ispirato ad una versione fiabesca dell’amore. I suoi genitori sono felicemente sposati da trentacinque anni e suo padre porta ancora oggi mazzi di fiori a sua madre. Ogni sabato, ad ogni festa. La porta a cena, si tengono per mano perennemente, lanciandosi sguardi da teenager innamorati. Insomma, da vomitare, se confrontava loro all’andazzo della sua vita sentimentale.
Io invece ero arrivato al punto di disdegnare profondamente l’idea della monogamia. Quando ci eravamo conosciuti, avevamo entrambi vent’anni. Ero un assiduo frequentatore di serate ed eventi gay, mondo notturno nel quale contano più o meno le cose elementari: bellezza, fisico, giovinezza (e, modestamente, non mi mancava niente di tutto ciò). Il tutto combinato con tanta voglia di divertimento senza rotture di coglioni. Questo stile di vita mi si era impregnato in modo tale, da rendermi restio a sentimenti che andavano oltre un’eiaculazione. O due. Non che non mi fossi mai infatuato. Il mio problema non era un qualche tipo di frigidità emozionale, ma lo stato d’animo post-coito. I ‘penso che non dovremmo più vederci’ o ‘è meglio rimanere solo amici, tanto possiamo trombare lo stesso’ erano troppo devastanti! Rendendomi conto che dopo questi calci in culo, travestiti da frasi di cortesia, mi trasformavo in uno zombi per intere settimane, avevo chiuso il capitolo ‘Amore’, concentrandomi sulla soddisfazione degli istinti animali primari e sul lavoro.
Quando mi confrontavo con Emma sui sentimenti, una discussione animata era da mettere in preventivo, anche se rispettavamo a vicenda le vedute dell’altro. Beh, Emma un po’ meno, perché voleva vedermi felicemente innamorato.
La situazione iniziò a cambiare in positivo, per entrambi se vogliamo, un giorno d’autunno del 2004. Eravamo entrambi alla reception a dibattere sulla sistemazione di un signore con il quale non ci voleva stare in stanza nessuno. Non è che russasse e basta. No! Sembrava proprio che accendesse una motosega appena si spegnevano le luci. Un incubo anche per chi stava nelle stanze vicine e di fronte.
Discutevamo in maniera molto accesa e non ci eravamo accorti che un ragazzo era entrato con la signora Brown al braccio e ci guardava perplesso. A lui doveva sembrare che da lì a poco ci fossimo saltati alla gola!
“Scusate…”, disse, imbarazzato di dover essere colui a porre fine al nostro dibattito.
Ci girammo verso di lui e la signora. Sentii Emma schiacciarmi la mano sotto il tavolo. Ci risiamo, pensai. Quando le partiva uno dei suoi soliti film d'amore in testa dopo aver adocchiato un altro eventuale ‘uomo della sua vita’, me lo faceva capire sempre stritolandomi la parte del corpo più vicina a lei.
“Mi… mia madre ha un appuntamento per la fisioterapia”, balbettò il ragazzo, lo sguardo incollato su Emma, un sorriso preoccupante sulle labbra.
Eccone un’altro, pensai. Il motivo per il quale lo avevo classificato come preoccupante, era quel sorrisino da imbecille che ero abituato a vedere di continuo sulle labbra di Emma. Forse l’estenuante attesa di Emma ed i suoi ‘perché nessuno mi vuole?’ e/o ‘morirò zitella’ stavano per giungere al capolinea?
“Certo!” rispose Emma.
Aveva sempre qualche difficoltà a trovare l’ottava giusta quando si trovava di fronte a qualcuno che le piaceva, e quell’ottava era senza dubbio troppo alta. Di solito a salvarla era una faccia tosta e battute capaci di imbarazzare anche un gigolò navigato. Di solito.
“Non sapevo che la signora Brown avesse un figlio, così…”
Blackout. Figura di merda imminente. Sguardo da ebete.
“Così giovane, volevi dire? Vero Emma? Avrai la nostra età”, cercai di salvare la situazione, rivolgendomi al ragazzo. Era veramente carino, proprio il tipo che mandava fuori di testa la mia amica.
“Sì!”, disse, rossa come un peperone, “volevo dire proprio questo. Vieni che vi accompagno. Signora Brown, come sta? Avrebbe dovuto farsi accompagnare prima da suo figlio”, le disse, sorridendo al ragazzo. “Io sono Emma Marsh, piacere. Lui è il mio collega, Daniel Clark.”
“Philipp Brown, piacere. E ne ho ventotto di anni.”
Le strinse la mano e fece un cenno di saluto con la testa a me. Poi Emma accompagnò lui e la madre verso il reparto adibito alla fisioterapia.
“Penso che accompagnerò più spesso la mamma d’ora in poi”, disse con un sorriso che gli fece quasi il giro della testa.
Li osservai allontanarsi. Che strana cosa l’amore. E questo sarebbe stato amore. Si sentiva nell’aria. Speravo che non si sarebbe trasformata in un’altra di quelle drammatiche tragicommedie che si svolgevano di solito nella vita di Emma.
Phil mi aveva fatto una buona impressione da subito. Era diverso dagli adoni che attiravano la mia amica di solito. Un bravo ragazzo nascosto in un corpo sportivo, incluso il sedere che avrebbe fatto bella figura in un qualsiasi pantalone, un sorriso luminoso e ben educato. Una rarità tra la specie maschile eterosessuale, sempre più bastarda per tenere testa all’emancipazione delle donne.
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