Alek's Books - La colpa è sua

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Daniel sta perdendo la speranza di trovare la persona giusta definitivamente. Per lui, vivere nell'ambiente gay, è una condanna a rimanere solo per tutta la vita. Quando la sua amica del cuore Emma si innamora di Phil, dimostrandogli anno dopo anno che l'amore esiste, si dispera ancora di più.
La sua vita viene stravolta quando incontra Jayed in circostanze bizzarre. Il ragazzo gli apre una finestra ad un mondo a lui nuovo, fatto di violenze fisiche, droga e sesso.
Sconosciuti ad entrambi, i sentimenti che nascono in pochissimo tempo tra i due, danno a Jayed l'opportunità di aprire il suo cuore, togliendosi di dosso anni di segreti agghiaccianti. Le verità dolorose su un passato difficile e le sue conseguenze, trasformeranno la vita di Daniel in un'altalena fatta di continui cambi d'umore che metteranno a dura prova l'amore appena nato.

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E utopistico.

Quando ti rendi conto che discoteche, pub e locali vari sono fatti per conoscere sì gente, ma che tali incontri si limitano per la maggior parte delle volte a semplici incontri corporei, ti svegli di colpo dal sogno disegnato dal signor Disney. Devi far parte di un gruppo di feticisti modaioli, succubi di un ideale irrealistico e comunque rincorso da tutti a causa di un obbligo sociale di dubbiosa provenienza. Quindi ti torturi per ore ed ore in palestra, segui il rito degli appuntamenti mensili dall’estetista per la depilazione e il mantenimento cutaneo per dimostrare meno anni di quelli che hai, anche se di anni ne hai solamente venti. Spendi cifre proibitive per abbigliamento prodotto a pochi soldi in Cina e miracolosamente dotato di marchi italiani prestigiosi. Il tutto per essere splendido il venerdì sera, quando vai a muoverti come un deficiente sulla pista da ballo di qualche locale gaio, ricordando un animale in calore.

Lentamente quel sogno della persona che ti dovrebbe far battere il cuore, senza schiacciarlo sotto i piedi, svanisce tra i fumi tossici della realtà di una società consumistica. Veniamo accecati da pubblicità e programmi televisivi, fatti per derubarci del contatto con ciò che succede dietro le quinte delle nostre vite. Abbiamo tutti paura di guardare nelle case degli altri, consci di trovare probabilmente delle verità che non saremmo in grado di sopportare. Storie che non esistono, se nessuno le racconta. O se nessuno le ascolta. Se non guardo, non vedo.

A me invece era stato insegnato ad ascoltare e guardare. Anche se qualche volta a caro prezzo.

Guardare quel corpo immobile, tutt’altro che un bel vedere, era quasi insopportabile. Lasciava solo una vaga idea delle percosse che aveva subito. Cercavo di non emettere alcun suono, mentre le lacrime mi scendevano pesanti sulle guance. Ero convinto che, se anche in coma farmacologico, mi potesse sentire e non volevo essere un ulteriore motivo di preoccupazione.

Era sempre stato troppo protettivo nei miei confronti. Preferiva soffrire in silenzio piuttosto di permettere che mi si procurasse un danno qualsiasi. Anche se quello in pericolo da sempre era stato lui. Io questo lo sapevo. Avrei voluto strapparlo a quella vita da quando l’avevo incontrato la prima volta. Era ovvio che prima o poi le conseguenze del passato sarebbero state più gravi di quanto immaginate.

Uno spirito libero come lui, però, non puoi metterlo in catene, onde evitare di ucciderlo. Per tutta la vita si era sforzato di essere ciò che gli altri volevano che fosse, costretto a ruoli sbagliati per un animo sensibile come il suo. Ruoli sbagliati per chiunque. Nonostante tutto, non avevo mai smesso di sperare che cambiassero, lui e la sua vita, anche se le probabilità di un eventuale successo non erano mai state veramente promettenti. Come far ragionare qualcuno, quando si sente impotente nei confronti del proprio destino? Non si può.

Mi venne da sorridere, ricordando il messaggio che mi aveva lasciato sul frigorifero.

SONO A PRANZO CON LUI, NON CI CREDO! VEDRAI CHE ANDRÀ TUTTO BENE. POI CI POSSIAMO CONCENTRARE SOLO SUL NOSTRO FUTURO. TI AMO

Sapevo di cosa era capace quell’uomo. Perché andarci? Forse era rimasto talmente infantile ed innocente, da non aver mai smesso di sperare che quell’animale di uomo cambiasse. Ma dopo ventidue anni? Per favore! Cazzate! Speranze inutili ed irrealistiche, nutrite ulteriormente per colpa mia.

Ne avevamo parlato di continuo. Ero talmente innamorato di lui che il solo pensiero a qualcuno che gli mettesse le mani addosso mi spaccava il cuore in due. Ogni memoria raccontata da quel ragazzo aveva lasciato dei segni indelebili anche su di me. Riuscivo a percepire il dolore che abitava quel corpo, apparentemente tutt’altro che sensibile o fragile. Captavo la disperazione, anche quando la sua voce cercava di mascherare ciò che succedeva veramente dentro di lui. Era naturale che raccontandosi rivivesse ogni minuto di sofferenza, fisica e psicologica. Ma era bisognoso di raccontarsi, di essere ascoltato, compreso e rassicurato del fatto che non aveva colpe e che non era solo.

Attraverso lacrime amare, che mi velavano la vista, cercavo di farmi raccontare l’accaduto dalle ferite che ricoprivano il suo viso. Da sveglio non sarebbe neanche riuscito ad aprire l’occhio destro, tanto era gonfio. Ematomi e pelle lesa un po’ ovunque parlavano di un’ira disumana, immotivata e ceca.

Le sue labbra però erano intatte, come per miracolo. A parte una piccola spaccatura. Amo quelle labbra. Dal primo istante. Carnose e morbide, un netto contrasto con quel viso da duro. Amo baciarle, sfiorarle con le dita e guardarle, mentre dicono qualcosa, mentre sorridono o mi urlano addosso la rabbia repressa da anni, durante un attacco di panico fuori dal suo controllo.

Quelle labbra… appena le sfioro dimentico tutto, magari mentre lo stringo tra le braccia, come un cucciolo che necessita di protezione da tutto e tutti. Sentire quel corpo duro sciogliersi tra le mie braccia si avvicina molto alla mia personale visione del paradiso. Quando ci baciamo so che è mio. Lo sento in ogni singola fibra del mio corpo e mi ritrovo magicamente nell’Ade a tutti gli effetti.

Quel corpo, così alto e forte, quasi indistruttibile, giaceva su un letto d’ospedale, reso inerme da un mix di medicinali. Siano lodate le case farmacologiche. Almeno non soffriva. Sarei morto all’idea del mio angelo nel morso del dolore. Se non avesse dormito, sarebbe già scappato dall’ospedale. Nemmeno una gamba rotta l’avrebbe trattenuto. Figuriamoci. Aveva visto e sentito di peggio. Molto peggio. L’istinto di sopravvivenza l’aveva fatto scappare sempre. Tanto per la società lui era solo uno dei tanti ragazzi invisibili che aveva fatto le “scelte” sbagliate, senza chiedersi una sola volta cosa avesse portato un ragazzo così giovane a scegliere quella vita. Ripeto: se fai finta che non esistono, non li vedi. Ecco perché “ragazzi invisibili” presumo.

“Quei poveri ragazzi! Non si rendono conto a cosa vanno incontro”, erano le parole dell’infermiera quando arrivai all’ospedale di Newark.

Stronza!, pensai. Che cazzo ne sapeva quella cosa aveva passato, da quale situazione era venuto? Come si fa a giudicare un ragazzo, poco più che adolescente, che si riempie di sostanze varie per non impazzire, senza avere nemmeno una vaga idea di ciò che ha visto e vissuto lui?

Non si può capire. E nemmeno io ero riuscito a capire certe cose. Ci avevo provato ogni giorno non giudicandolo, né forzandolo a fare scelte per le quali non fosse pronto. Mai.

Spesso era difficile ignorare il mio cuore, mentre si disintegrava durante i suoi racconti. All’inizio ero stato io a chiedergli di parlare, di ricordare, perché aveva bisogno di essere incoraggiato. Pian piano si era fidato sempre di più e raccontava da sé. Voleva rendermi partecipe della sua vita.

“Mi dispiace, cucciolo”, gli sussurrai nell’orecchio appena ero solo con lui nella sua stanza. Le mie guance erano bagnate da lacrime che credevo già terminate, considerate le notti rimasto sveglio a cercare soluzioni.

Il ragazzo aveva salvato un solo numero nel suo cellulare ed era il mio. Avevano chiamato per avvisarmi del ricovero di un ragazzo, del quale non sapevano né il nome, né cosa avesse fatto in quell’appartamento. Lui non portava mai una carta d’identità con sé. Così non esisteva.

“È un parente?”, chiese la voce al telefono.

“Non ha parenti”, mentii, discutendo per buona mezz’ora per convincere la signorina dall’altra parte della cornetta che o ci sarei stato io, o sarebbe stato da solo.

“Sono il suo compagno.”

L’amore nato nei confronti di quel ragazzo non aveva nulla a che fare con la razionalità. Altrimenti sarei dovuto scappare. Mi sarei risparmiato un bel po’ di notti insonni. Chi si innamora razionalmente, purché sia possibile, non si mette con un disastro di essere umano come lo era stato lui, conscio di avere vicino una psiche labile. Ne ero consapevole, allora. Credo. Ci ripensavo, mentre scrivevo le indicazioni dettatemi al telefono, per poi lanciarmi alla macchina e raggiungerlo.

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