“Dai, usciamo da questo vicolo e chiamo la polizia”, gli dissi, mentre ci dirigevamo verso la via principale. Mancavano nemmeno due chilometri a casa mia e io cosa faccio? Mi trovo un qualche casino, giusto per non annoiarmi.
“Niente polizia” , mormorò guardandomi con occhi supplichevoli.
“Ok, niente polizia”, dissi, anche se non capivo. “Ho la macchina a due passi. Se vuoi ti accompagno in ospedale.”
Almeno sarei stato sicuro che ci avrebbero pensato dei professionisti, e se avesse avuto bisogno della polizia, gliel’avrebbero chiamata loro. Doveva farsi vedere. Ad ogni tocco della mia mano il corpo del ragazzo reagiva con piccoli scatti di dolore. Aveva decisamente bisogno di cure mediche.
“No, niente ospedale, niente luoghi pubblici!”
La sua voce aveva un suono decisamente spaventato.
“Senti, stai sanguinando un po’ dappertutto. Non so se te ne sei accorto. E per il taglio sul sopracciglio ci vorranno minimo due punti di sutura.”
Allora, io non sono un medico e un anno di medicina non fanno di me uno specialista che sa come curare il male del mondo. Bastava guardarlo, però, per rendersi conto che non sarebbe bastato un cerotto. Lui non rispondeva. Tanto dagli occhi la risposta era più che palese: NO!
“Sto bene, veramente. Saresti un grande se potessi darmi un passaggio a casa. Mi chiamerei un taxi, ma penso che non si fermerebbe nessuno, conciato come sono.”
E qui non potevo dargli torto. Se io fossi stato un tassista a New York, di notte, e avessi visto un ragazzo ricoperto di sangue, a petto nudo, anche se fosse stato un figo della madonna (e il caso presente era tutt’altro che brutto), non mi sarei fermato. Non avevo la minima idea di chi fosse. Il solo pensiero di farlo salire in macchina era da pazzi. Poteva essere un tossicodipendente che per dieci dollari mi avrebbe anche potuto sparare. Nascondere una pistola sotto quella poca stoffa che lo copriva era ben impensabile, ma che ne potevo sapere io?
Cosa certa era che avevo di fronte uno completamente fuori di testa. Almeno avrebbe spiegato la sua reazione quando gli avevo offerto di portarlo all’ospedale. Era più terrorizzato dall’idea di essere portato lì, che dai danni procurati al suo corpo, ricoperto da lividi e piccoli tagli. Lo so, lo so. Sommando tutti questi fatti avrei dovuto spingerlo per terra e scappare urlando ‘AIUTO!’. Solo che quegli occhi mi sembravano sinceri, ne ero convinto.
“Va bene. Abito a poco più di un chilometro da qui.”
Sorreggendolo con un braccio, facemmo l’ultimo pezzo di strada verso casa mia. In silenzio. Ogni tanto guardavo il viso del ragazzo con la coda dell’occhio. Era poco più basso di me, il volto storpiato da un’espressione di dolore. Cercava di nasconderlo al meglio possibile. Forse un gruppo di ragazzi, in vena di danni, l’aveva derubato e preso a botte. Ma i jeans sbottonati rimanevano ancora senza spiegazione.
“Io sono J” , si presentò il ragazzo, sorridendomi.
“Daniel.”
“Piacere Daniel.”
C’era qualcosa in quel ragazzo che mi rendeva nervoso. Nervoso in modo strano. Positivamente nervoso. Credo.
Arrivati a casa, lo feci salire in macchina e mi feci spiegare la strada.
Il quartiere verso il quale eravamo diretti non era dei migliori. Papà mi aveva raccontato che era pieno di tossicodipendenti, prostitute e che l’hobby dei ragazzini lì era lo spaccio di droga. L’immagine corrispondeva con l’aspetto di J. Mentre guidavo, continuavo a guardarlo senza farmi notare. La bellezza di quel ragazzo avrebbe tolto il respiro anche all’uomo più etero di questa galassia, se si tralasciava lo sporco e il sangue che gli coprivano il volto. Grasso sembrava una sostanza sconosciuta al suo organismo. Era tutto muscoli e nervi. Ecco, adesso lo sapete. Anche gli uomini sanno essere invidiosi ed era facile esserlo del suo fisico. Nemmeno con cinque ore al giorno di palestra sarei arrivato ad un risultato del genere, praticamente vicino alla perfezione. Era giovane. Si vedeva dalla pelle, anche se il viso raccontava un passato intenso. Avrei voluto chiedere cosa era successo, ma non volevo essere invadente. Se avesse voluto raccontarmelo, l’avrebbe già fatto.
“Ora a destra… puoi parcheggiare qui.”
Guardavo il buio davanti a me. No, non era per niente raccomandabile quella zona. Lasciare la macchina lì non mi sembrava per niente una buona idea. Immaginavo già il peggio. Un gruppo di malviventi che mi circondava, prendendomi a botte, derubandomi e lasciandomi lì per strada, riverso in un mare di sangue. J doveva aver notato il mio stato d’ansia. Si girò e mi lanciò un sorriso da paura, mentre si toglieva una ciocca di capelli caduta sul viso. Mi fece cenno con la testa di seguirlo e scese dalla macchina.
“Aspetta”, urlai e gli corsi dietro. Che cagasotto che ero in certe situazioni.
Attraversammo una stradina buia. Non si riusciva a distinguere nemmeno i propri piedi. Bel posto, pensai, deridendomi da solo per il mio panico. Continuavo a girarmi, giusto per essere sicuro di non essere inseguiti da qualche bruto. Arrivati ad un vecchio portone, J si guardò attorno un attimo. Poi tirò fuori la chiave a aprì.
“Vieni. A quest’ora non è tanto sicuro rimanere qui per strada.”
Ma dai? Il suo sguardo serio non era per niente tranquillizzante. Me la stavo facendo addosso per davvero, non mi fossi trovato entro breve chiuso dietro quel portone.
“Scherzo!” , ghignò, tenendomi aperto la porta. “È solo che si vede lontano un miglio che non sei di qui. E questo sì rende la situazione poco sicura.”
Ah, bene. Allora sto tranquillo, pensai.
Entrati nel palazzo l’immagine sinistra non cambiò minimamente. I muri nel giro-scale erano riempiti di graffiti di ogni tipo, illuminati da una luce mal funzionante. Spaccature di varie misure decoravano il resto del intonaco. Si sentivano delle urla in spagnolo, probabilmente un litigio casalingo. Le pareti dovevano essere di cartone, perché mentre salivamo le scale si potevano udire: una coppia durante il coito, uno che si esercitava con un rap e una che sbraitava con i propri figli. Arrivati al secondo piano ci fermammo davanti ad una porta senza numero né nome. J aprì e mi fece entrare per primo.
“Benvenuto.”
Mi guardai intorno. Se non mi fossi calmato da lì a poco, il cuore mi si sarebbe fermato di botto. Accogliente di certo non era l’aggettivo adatto per descrivere l’appartamento nel quale mi stavo trovando. Era buio, disordinato e l’aria era irrespirabile. Fumo vecchio e freddo era l’odore prevalente, oltre a qualcosa di bruciacchiato indecifrabile.
“Nico!” urlò J. Feci un salto dallo spavento. “Sono a casa! Faccio una pausa da quattro. Diglielo quando lo vedi stasera!” Poi si girò verso di me. “Siediti. Fa’ come se fossi a casa tua.”
Con questo mi lasciò lì in piedi come un coglione. Le opzioni per sedersi erano alquanto scarse. C’era una sedia che avrebbe retto al massimo un peso di cinquanta chili, quindi la scartai. Poi c’era una poltrona, ricoperta da bruciature, e un divano macchiato di un po’ di tutto, ma che sembrava abbastanza comodo. Mi sedetti lentamente, attento a non toccare niente.
Intanto J era andato in bagno. Notai l’assenza di porte all’interno di questo appartamento. Niente privacy. Non era il posto adatto per persone timide.
J di certo non lo era. Si tolse i jeans senza problemi e si fermò davanti allo specchio per studiarsi le ferite in viso. I piccoli tagli che avevo notato sul suo torso, ricoprivano tutto il suo corpo. E che corpo! Doveva essere alto un metro e ottanta. Completamente privo di peluria, si riusciva a vedere ogni singolo muscolo muoversi sotto la pelle tirata. Sommerso da quella visione, non avevo notato che J mi stava guardando, sorridendo compiaciuto.
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