Jules Verne - L’Isola Misteriosa

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L’Isola Misteriosa: краткое содержание, описание и аннотация

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Questo straordinario romanzo presenta non poche analogie con Robinson Crusoe, dello scrittore inglese Defoe, di cui Verne era un grande ammiratore. Anche qui, la situazione è press’a poco la stessa: alcuni naufraghi approdano fortunosamente su un’isola deserta e lottano disperatamente per sopravvivere. Ma se Robinson, di fronte alla natura selvaggia, incarnava l’uomo del ‘700, che si industria come può, ricorrendo ai piccoli espedienti suggeritigli dalla ragione, senza altri strumenti che le proprie mani, i cinque naufraghi protagonisti di questo libro incarnano la nuova idea dell’uomo «scientifico» qual era concepito nella seconda metà dell’800, l’uomo che domina ormai la natura in virtù di una tecnologia progredita che gli permette di trasformare rapidamente un’isola selvaggia in una colonia civile. Non a caso Robinson è un uomo comune, un marinaio, ed è solo, a lottare contro le forze cieche della natura, mentre qui siamo dì fronte a una vera e propria équipe, composta da persone di estrazione e di competenze diverse, ma guidata da un ingegnere e scienziato, Cyrus Smith…

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«Sai che pianta è questa?» chiese Harbert al marinaio.

«Tabacco!» esclamò Pencroff, che evidentemente non aveva visto la pianta prediletta che nel fornello della sua pipa.

«No, Pencroff!» rispose Harbert «non è tabacco; è senape.»

«Vada per la senape!» rispose il marinaio «ma, se per caso si presentasse una pianta di tabacco, non trascurarla, figlio mio.»

«Ne troveremo un giorno o l’altro!» disse Gedeon Spilett.

«Davvero?» esclamò Pencroff. «Orbene, quel giorno non so proprio che cosa mancherà più alla nostra isola!»

Quelle diverse piante, ch’erano state sradicate con cura, vennero trasportate nella piroga, che Cyrus Smith non abbandonava, sempre assorto nelle sue riflessioni.

Il giornalista, Harbert e Pencroff sbarcarono così parecchie volte, sia sulla riva destra del Mercy, che sulla riva sinistra. Questa era meno dirupata, ma quella era più boscosa. L’ingegnere poté constatare, consultando la bussola da tasca, che la direzione del fiume, dopo il primo gomito, volgeva da sudovest a nordest, ed era quasi rettilinea per una lunghezza di circa tre miglia. Ma era supponibile che quella direzione si modificasse più avanti e che il Mercy risalisse a nordovest, verso i contrafforti del monte Franklin, che dovevano alimentarlo con le loro acque.

Durante una di queste escursioni, Gedeon Spilett riuscì a impadronirsi di due coppie di gallinacei vivi. Erano volatili dai becchi lunghi e sottili, collo lungo, ali corte e senza parvenza di coda. Harbert diede loro, con ragione, il nome di tinamù, e fu deciso che sarebbero stati i primi ospiti del futuro pollaio.

Ma sino allora i fucili non avevano parlato e la prima detonazione che rimbombò nella foresta del Far West fu provocata dall’apparizione di un bell’uccello, che anatomicamente assomigliava a un martinpescatore.

«Lo riconosco!» gridò Pencroff, e si può dire che il colpo gli sfuggì involontariamente.

«Che cosa riconoscete?» domandò il giornalista.

«Il volatile che ci è sfuggito durante la prima escursione e il cui nome abbiamo poi assegnato a questa parte della foresta.»

«Uno jacamar!» esclamò Harbert.

Era uno jacamar, infatti, bell’uccello, il cui piumaggio, piuttosto ruvido, è però dotato d’uno splendore metallico. Alcuni pallini di piombo l’avevano atterrato e Top lo portò al canotto, insieme a una dozzina di «turachi lori», volatili rampicanti della grossezza d’un piccione, tutti chiazzati di verde, con una parte delle ali di color cremisi e un ciuffo ritto, terminato da un orlo bianco festonato. Al giovinetto spettò l’onore di questo bel colpo di fucile, ed egli se ne mostrò abbastanza fiero. I lori costituivano una selvaggina migliore dello jacamar, la cui carne è un po’ coriacea, ma difficilmente Pencroff si sarebbe persuaso che l’uccello da lui ucciso non era il re dei pennuti commestibili.

Erano le dieci del mattino quando la piroga raggiunse un secondo gomito del Mercy, a circa cinque miglia dalla sua foce. Gli esploratori sostarono in quel luogo per far colazione, e questa sosta, all’ombra di grandi e begli alberi, si prolungò per mezz’ora.

Il fiume misurava ancora da sessanta a settanta piedi di larghezza e il suo letto da cinque a sei piedi di profondità. L’ingegnere aveva osservato che numerosi affluenti andavano a ingrossarne il corso, ma non erano che semplici ruscelli non navigabili. Quanto alla foresta, tanto sotto il nome di bosco dello Jacamar, che sotto quello di foreste del Far West, si stendeva a perdita d’occhio. Da nessuna parte, né sotto i boschi d’alberi d’alto fusto, né sotto gli altri alberi delle sponde del Mercy, si rivelava la presenza dell’uomo. Gli esploratori non trovarono alcuna traccia sospetta, ed era evidente che mai l’accetta del taglialegna aveva intaccato quelle piante, che mai il coltello del pioniere aveva tagliato le liane tese da un tronco all’altro, in mezzo ai folti cespugli e alle erbe alte. Se dei naufraghi avevano atterrato sull’isola, non avevano ancora lasciato il litorale e non era certo in quell’asilo fitto d’ombre che si dovevano cercare i superstiti del supposto naufragio.

L’ingegnere manifestava, dunque, una certa fretta di raggiungere la costa occidentale dell’isola di Lincoln, distante, secondo i suoi calcoli, almeno cinque miglia. La navigazione fu ripresa, e per quanto il Mercy sembrasse allora dirigere il suo corso non verso il litorale, ma piuttosto verso il monte Franklin, fu deciso di servirsi della piroga sino a che essa avesse trovato sotto la chiglia abbastanza acqua per galleggiare. Così molte fatiche erano risparmiate e si faceva pure economia di tempo, giacché sarebbe stato necessario aprirsi un passaggio con la scure attraverso i folti macchioni.

Ma presto il flusso venne a mancare completamente, sia che la marea calasse, — infatti, era l’ora in cui doveva calare, — sia che non si facesse più sentire a tanta distanza dalla foce del Mercy. Bisognò, dunque, por mano ai remi. Nab e Harbert presero posto sul loro banco, Pencroff al remo a bratto (Nota: remo da bratto usato in alcuni piccoli battelli che hanno la poppa quadrata e senza timone. Il remo, della forma usuale, viene appoggiato in un incavo praticato al centro dell’orlo della poppa, ed è messo a mare in direzione della chiglia. Fine nota) e la piroga continuò a risalire il fiume.

Pareva che la foresta tendesse a diradarsi dalla parte del Far West. Gli alberi erano meno vicini fra loro e si mostravano spesso isolatamente. Ma, appunto perché erano più distanti gli uni dagli altri, usufruivano più largamente dell’aria pura e libera, che circolava loro d’intorno, ed erano magnifici.

Che splendidi esemplari della flora di quella latitudine! La loro presenza sarebbe certamente bastata a un botanico per determinare senza esitazione il parallelo che attraversava l’isola di Lincoln!

«Degli eucalipti!» aveva esclamato Harbert.

Ed erano, infatti, questi stupendi vegetali, gli ultimi giganti della zona extratropicale, congeneri degli eucalipti d’Australia e Nuova Zelanda, situate alla stessa latitudine dell’isola di Lincoln. Alcuni misuravano un’altezza di duecento piedi. Il tronco aveva alla base una circonferenza di venti piedi e la corteccia, solcata da innumerevoli rivoletti di resina profumata, contava sino a cinque pollici di spessore. Nulla di più meraviglioso, di più singolare di quegli enormi campioni della famiglia delle mirtacee, il cui fogliame si presenta di profilo alla luce e lascia arrivare fino al suolo i raggi del sole!

Ai piedi di quegli eucalipti, un’erba fresca tappezzava il suolo, dai ciuffi della quale fuggivano stormi di uccelletti, che risplendevano nei raggi luminosi come carbonchi alati.

«Questi sono alberi!» esclamò Nab. «Ma servono a qualche cosa?»

«Puah!» rispose Pencroff. «I vegetali giganti devono essere come i giganti umani. Non servono che per essere messi in mostra nelle fiere!»

«Credo che vi sbagliate,» rispose Gedeon Spilett «perché il legno d’eucalipto comincia a essere usato con ottimi risultati nell’ebanisteria.»

«E aggiungerò,» disse il ragazzo «che questi eucalipti appartengono a una famiglia che comprende parecchi membri utili: la guaiava, che dà le guaiave; il garofano, che produce i chiodi di garofano; il melograno, che dà i melograni; l’eugenia cauliflora, i cui frutti servono alla fabbricazione di un vino discreto; il mirto ugni, che contiene un eccellente succo alcoolico; il mirto caryophyllus, la cui scorza costituisce una cannella pregiata; l’eugenia pimenta, da cui si trae il peperoncino della Giamaica; il mirto comune, le cui bacche possono surrogare il pepe; l’eucalyptus robusta, che produce una eccellente qualità di manna; l’eucalyptus Gunei, dalla linfa che si trasforma in birra, mediante fermentazione; insomma, tutti gli alberi conosciuti sotto il nome di alberi di vita o legno di ferro, che appartengono alla famiglia delle mirtacee, della quale si contano quarantasei generi di milletrecento specie!»

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