Infatti, le maree del Pacifico, anche nel massimo della loro elevazione, non dovevano mai raggiungere il livello del fiume, il cui letto formava come una gora d’afflusso, e milioni d’anni, indubbiamente, sarebbero passati prima che le acque avessero roso quella parete di granito e scavato una foce praticabile. Così, di comune accordo, fu dato a quel corso d’acqua il nome di Fiume della Cascata (Fall’sriver).
Più oltre, verso il nord, la costa, formata dalla foresta, si prolungava per uno spazio di due miglia circa; poi gli alberi divenivano più radi e, più oltre ancora, delle alture molto pittoresche tracciavano una linea quasi diritta, che correva da nord a sud. Invece, in tutta la parte del litorale compresa tra il Fiume della Cascata e il promontorio del Rettile, non c’erano che masse boscose, alberi magnifici, gli uni diritti, gli altri inclinati, le cui radici erano bagnate dalle lunghe onde del mare. Ora, appunto verso questa costa, cioè su tutta la penisola Serpentine, doveva essere continuata l’esplorazione, giacché questa parte del litorale offriva possibilità di asilo, che l’altra, arida e selvaggia, avrebbe evidentemente rifiutato a dei naufraghi, chiunque essi fossero.
Il tempo era bello e chiaro, e dall’alto di una scogliera, sulla quale Nab e Pencroff prepararono la colazione, lo sguardo poteva spaziare lontano. L’orizzonte era perfettamente sgombro e non c’era nemmeno una vela al largo. Su tutta la costa, fin dove la vista poteva arrivare, non un bastimento, né il relitto d’un naufragio. Ma l’ingegnere non si sarebbe creduto bene informato in proposito, se non quando avesse esplorato la costa sino all’estremità stessa della penisola Serpentine.
La colazione fu consumata rapidamente, e alle undici e mezzo Cyrus Smith diede il segnale della partenza. Invece di percorrere o la cresta di una scogliera o un greto di sabbia, i coloni dovettero seguire il tratto alberato che si estendeva lungo la riva.
La distanza che separava la foce del Fiume della Cascata dal promontorio del Rettile era di dodici miglia circa. In quattro ore, su una spiaggia praticabile, e senza affrettarsi, i coloni avrebbero potuto percorrere questa distanza; ma occorse loro il doppio di questo tempo per toccare la mèta, giacché gli alberi che bisognava aggirare, i cespugli da tagliare, le liane da rompere, li arrestavano continuamente, e tutti questi giri viziosi allungavano straordinariamente la loro strada.
Con tutto questo, però su quel litorale non appariva alcun segno di recente naufragio. È vero, come fece osservare Gedeon Spilett, che il mare aveva potuto trascinare tutto al largo, e quindi non bisognava concludere che una nave non fosse stata gettata sulla costa in quella parte dell’isola di Lincoln, per il solo fatto che non se ne trovava più alcuna traccia.
Il ragionamento del giornalista era giusto, e d’altronde l’incidente del pallino di piombo provava, in modo inconfutabile, che, al massimo tre mesi prima, un colpo di fucile era stato sparato sull’isola.
Erano già le cinque e l’estremità della penisola Serpentine si trovava ancora a due miglia dal punto in cui erano pervenuti i coloni. Era evidente che, dopo aver raggiunto il promontorio del Rettile, Cyrus Smith e i compagni non avrebbero più fatto in tempo a ritornare, prima del calar del sole, all’accampamento ch’era stato stabilito presso le sorgenti del Mercy. Di qui la necessità di passare la notte sul promontorio medesimo. Ma le provviste non mancavano, e fu una fortuna, giacché la selvaggina da pelo non si faceva più vedere in quel bosco, il quale non era, dopo tutto, che una marina. Vi brulicavano, invece, gli uccelli; jacamar, curucù, tragopani, tetraoni, lori, pappagalli dalla lunga coda, cacatoa, fagiani, piccioni e cento altri. Non un albero che non avesse un nido, non un nido che non fosse tutto un batter d’ali!
Verso le sette di sera i coloni, spossati dalla fatica, arrivarono al promontorio del Rettile, specie di voluta stranamente frastagliata sul mare. Lì finiva la foresta rivierasca della penisola e il litorale riprendeva in tutta la parte sud l’aspetto consueto di una costa, con i suoi frangenti, i suoi scogli, le sue spiagge. Era quindi possibile, che una nave senza governo si fosse arenata in quella parte dell’isola; ma la notte scendeva e bisognò rimettere l’esplorazione all’indomani.
Pencroff e Harbert si affrettarono a cercare un luogo adatto per installarvi un accampamento. Gli ultimi alberi della foresta del Far West venivano a finire su quella punta, e fra essi il giovinetto notò dei folti canneti di bambù.
«Bene!» diss’egli «ecco una scoperta preziosa!»
«Preziosa?» disse Pencroff.
«Indubbiamente» rispose Harbert. «Io non ti dirò, Pencroff, che la scorza del bambù, tagliata in liste flessibili, serve a far dei panieri e delle ceste; che questa scorza, ridotta in pasta e macerata, serve alla fabbricazione della carta di Cina; che i fusti forniscono, secondo la grossezza, dei bastoni, delle canne da pipa, dei tubi per l’acqua; che i grandi bambù danno eccellenti materiali da costruzione, leggeri e solidi e che non sono mai attaccati dagli insetti. Non aggiungerò nemmeno che, tagliando dei segmenti di bambù e conservando per fondo uno dei diaframmi trasversali che formano il nodo, s’ottengono dei vasi solidi e comodi, che sono molto in uso presso i cinesi! No, questo non ti soddisferebbe interamente. Ma…»
«Ma?…»
«Ma ti farò sapere, se l’ignori, che in India si mangiano i bambù come asparagi.»
«Degli asparagi di trenta piedi!» esclamò il marinaio. «E sono buoni?»
«Eccellenti» rispose Harbert. «Solamente non sono dei fusti di trenta piedi quelli che si mangiano, bensì i giovani germogli di bambù.»
«A meraviglia, ragazzo mio, a meraviglia!» rispose Pencroff.
«Aggiungerò anche che il midollo dei fusti novelli, conservato nell’aceto, forma un condimento apprezzatissimo.»
«Di bene in meglio, Harbert.»
«E finalmente, i bambù trasudano fra i nodi un liquore zuccherino, con il quale si può fare una bibita gradevolissima.»
«È tutto?» domandò il marinaio.
«Tutto!»
«E non si potrebbe fumarlo, per caso?»
«No, non si fuma, mio povero Pencroff!»
Harbert e il marinaio non ebbero da cercare a lungo un punto favorevole per passare la notte. Gli scogli della spiaggia, molto disuniti, giacché dovevano essere violentemente battuti dal mare sotto il soffiare del vento di sudovest, presentavano delle cavità, che potevano loro permettere di dormire al coperto dalle intemperie. Ma proprio mentre si disponevano a penetrare in una di quelle caverne, furono arrestati da formidabili ruggiti.
«Indietro!» gridò Pencroff. «Non abbiamo che dei pallini da caccia nei nostri fucili e le bestie che ruggiscono in questo modo se ne preoccupano come d’un grano di sale!»
E il marinaio, afferrando Harbert per il braccio, lo trascinò a nascondersi fra le rocce, nel momento in cui un magnifico animale si mostrava all’ingresso della caverna.
Era un giaguaro, grande almeno quanto i suoi consimili d’Asia, vale a dire che misurava più di cinque piedi dall’estremità della testa all’attacco della coda. Il suo mantello fulvo era adorno di parecchie file di macchie nere regolarmente ocellate e risaltava sul pelo bianco del ventre. Harbert riconobbe in quell’animale il feroce rivale della tigre, ben più temibile del coguaro, il quale non è che il rivale del lupo!
Il giaguaro s’avanzò e guardò attorno a sé, il pelo irto, l’occhio infuocato, come se non fosse stata la prima volta che sentiva l’uomo.
In quel momento il giornalista superava le alte rocce e Harbert, supponendo ch’egli non avesse scorto il giaguaro, stava per slanciarsi verso di lui; ma Gedeon Spilett gli fece un segno con la mano e continuò a camminare. Egli non era alla sua prima tigre e, avanzandosi sino a dieci passi dall’animale, rimase immobile, senza che uno solo dei suoi muscoli trasalisse.
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