«Evviva!» gridò il marinaio, che non sdegnò di celebrare così il proprio trionfo. «Con questa si farebbe il giro…»
«Del mondo?» domandò Gedeon Spilett.
«No, dell’isola. Alcuni sassi per zavorra, un albero a prua e un pezzettino di vela, che il signor Smith ci fabbricherà un giorno, e si andrà lontano! Ebbene, signor Cyrus, e voi signor Spilett, e voi Harbert, e tu Nab, non venite, dunque, a provare il nostro nuovo bastimento! Diavolo! Bisogna pur vedere se può portarci tutti e cinque!»
Infatti, era necessario fare questo esperimento. Pencroff, con un colpo di remo, ricondusse l’imbarcazione presso la spiaggia, per uno stretto passaggio esistente fra gli scogli, e si decise che in quello stesso giorno sarebbe stata fatta la prova della piroga, costeggiando la riva fino alla prima punta, dove finiva a sud la scogliera.
Al momento dell’imbarco, Nab esclamò:
«Ma fa anche abbastanza acqua il tuo bastimento, Pencroff!»
«Niente, niente, Nab» rispose il marinaio. «Bisogna che il legno si stagni! Entro due giorni ogni infiltrazione sarà cessata e la nostra piroga non avrà più acqua nel ventre, di quanta ve ne sia nello stomaco di un ubriacone. A bordo!»
I coloni s’imbarcarono e Pencroff prese il mare. Il tempo era magnifico, il mare calmo come se le sue acque fossero state contenute nelle strette rive di un lago, e la piroga poteva quindi affrontarlo con la stessa sicurezza con cui avrebbe risalito la tranquilla corrente del Mercy.
Dei due remi, Nab prese l’uno, Harbert l’altro e Pencroff rimase a poppa dell’imbarcazione, a sbrattare.
Il marinaio attraversò dapprima il canale e andò a costeggiare la punta sud
dell’isolotto. Una leggera brezza soffiava da sud. Vi era calma sia nel canale sia al largo. Solo poche lunghe, ondulazioni, che la piroga avvertiva appena, essendo pesantemente carica, gonfiavano regolarmente la superficie del mare. I coloni s’allontanarono di circa mezzo miglio dalla costa, in modo da scorgere il monte Franklin in tutta la sua estensione.
Poi, Pencroff, invertita la rotta, ritornò verso la foce del fiume. La piroga segui allora la riva che, arrotondandosi fino alla punta estrema, nascondeva tutta la pianura paludosa delle tadorne.
Quella punta, la cui distanza era accresciuta dalla curva della costa, si trovava a circa tre miglia dal Mercy. I coloni decisero di andare fino alla sua estremità e di non oltrepassarla, che di quel tanto che sarebbe occorso per avere una rapida visione della costa fino al capo Artiglio.
Il canotto proseguì, dunque, lungo il litorale a una distanza di due gomene al più, evitando gli scogli di cui quei paraggi erano seminati e che la marea crescente cominciava a coprire. La parete andava abbassandosi dalla foce del fiume sino alla punta. Era un ammasso di graniti, capricciosamente disposti, molto diversi dalla cortina che formava l’altipiano di Bellavista, e di un aspetto straordinariamente selvaggio. Si sarebbe detto che un enorme tombarello di massi fosse stato vuotato là. Niente vegetazione sulla sporgenza acutissima che si prolungava in avanti per due miglia oltre la foresta; e quella punta raffigurava assai bene il braccio d’un gigante uscente da una manica di verzura.
Il canotto, spinto dai due remi, avanzava senza fatica. Gedeon Spilett, la matita in una mano, il taccuino nell’altra, disegnava la costa a grandi tratti. Nab, Pencroff e Harbert parlavano insieme, esaminando quella parte del loro dominio, nuova ai loro occhi e, a mano a mano che la piroga discendeva verso il sud, i due capi Mandibola parevano spostarsi a chiudere più strettamente la baia dell’Unione.
Cyrus Smith non parlava, guardava, e dalla diffidenza che il suo sguardo esprimeva, sembrava sempre ch’egli osservasse qualche strana contrada.
Intanto, dopo tre quarti d’ora di navigazione, la piroga era arrivata quasi all’estremità della punta e Pencroff già si preparava a doppiarla, quando Harbert alzandosi, mostrò una macchia nera, dicendo:
«Che cos’è quello che vedo laggiù sulla spiaggia? Tutti gli sguardi si volsero al punto indicato.»
«Infatti» disse il giornalista «c’è qualche cosa. Si direbbe un relitto mezzo affondato nella sabbia.»
«Ah!» gridò Pencroff «io vedo che cos’è!»
«Che cosa, dunque?» domandò Nab.
«Dei barili, dei barili, che possono essere pieni!» rispose il marinaio.
«A riva, Pencroff!» disse Cyrus Smith.
Dopo pochi colpi di remo la piroga approdò in una piccola ansa, e i suoi passeggeri balzarono a terra.
Pencroff non si era ingannato. C’erano due barili, per metà affondati nella sabbia, ma ancora saldamente attaccati a una larga cassa che, sostenuta da essi, aveva così galleggiato sino al momento in cui era venuta ad arenarsi sulla spiaggia.
«C’è dunque stato un naufragio nei paraggi dell’isola?» domandò Harbert.
«Evidentemente» rispose Gedeon Spilett.
«Ma che cosa c’è in questa cassa?» esclamò Pencroff, con un’impazienza molto naturale. «Che cosa c’è in questa cassa? È chiusa e non abbiamo nulla per rompere il coperchio! Orbene, a colpi di pietra allora…»
E il marinaio, sollevando un pesante blocco di granito, s’accingeva a sfondare una delle pareti della cassa, quando l’ingegnere, trattenendolo:
«Pencroff,» gli disse «potete moderare la vostra impazienza per un’ora soltanto?»
«Ma, signor Cyrus, qui dentro c’è forse tutto quello che ci manca!»
«Lo sapremo, Pencroff,» rispose l’ingegnere «ma credetemi, non rompete questa cassa, che può esserci utile. Trasportiamola a GraniteHouse, dove potremo aprirla più facilmente e senza romperla. È ben preparata per viaggiare e, se ha potuto galleggiare sin qui, galleggerà fino alla foce del fiume!»
«Avete ragione, signor Cyrus, e io avevo torto,» rispose il marinaio «ma non sempre si è padroni di sé!»
Il consiglio dell’ingegnere era saggio. Infatti, la piroga non avrebbe potuto contenere gli oggetti ch’erano probabilmente rinchiusi nella cassa, la quale doveva essere pesante, se erano stati necessari due barili vuoti per tenerla a galla. Era, dunque, meglio rimorchiarla così fino al lido di GraniteHouse.
E ora, di dove veniva quella cassa abbandonata? Ecco un problema importante. Cyrus Smith e i suoi compagni si guardarono attorno attentamente e percorsero il lido per parecchie centinaia di passi. Nessun rottame apparve loro. Anche il mare fu scrutato. Harbert e Nab salirono su di un masso elevato, ma l’orizzonte era deserto. Nulla in vista, né un bastimento alla deriva, né una nave alla vela. Ciò nonostante, un naufragio c’era stato, non poteva esservi dubbio. Anche quest’ultimo avvenimento si collegava forse all’incidente del pallino di piombo? Forse degli stranieri erano sbarcati su un altro punto dell’isola? Vi erano forse ancora? Ma la riflessione che logicamente fecero i coloni fu che, a ogni modo, quegli stranieri non potevano essere pirati malesi, poiché l’oggetto gettato in quel luogo dal mare era evidentemente di provenienza americana o europea.
Tutti ritornarono vicino alla cassa, che misurava cinque piedi di lunghezza per tre di larghezza. Era di legno di quercia, chiusa molto accuratamente e coperta d’una spessa pelle fissata con chiodi di rame. I due grossi barili, ermeticamente tappati, ma che a picchiarvi sopra si sentivano vuoti, aderivano ai suoi fianchi mediante robuste corde, annodate con nodi, che Pencroff facilmente riconobbe per nodi da marinaio. La cassa stessa pareva in stato di perfetta conservazione, il che si spiegava con il fatto che s’era arenata su una riva sabbiosa e non sugli scogli. Esaminandola bene, si poteva anche affermare che la sua permanenza in mare non doveva essere stata lunga, e che doveva essere giunta sulla spiaggia da pochissimo tempo. Pareva che l’acqua non fosse penetrata nell’interno, e quindi, gli oggetti ch’essa conteneva dovevano essere intatti.
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