Federico Frezzi - Il Quadriregio

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il piombo solo è che la vince e spiega
sí come il diamante, e cosí face
di questa dea chi umilmente la prega.

100 Da questo regno sí alto e capace
la guida sale alla nobile Astrea,
che con Saturno resse il mondo in pace.

Ma, poiché fu la gente fatta rea
e l'avarizia resse il mondo male,
105 ritornò al cielo, ov'ella è fatta dea.

Al nobil mio reame poi si sale,
ove si trovan tre altre reine,
ognuna in nobiltá a me eguale.

Con queste tre sí alte e sí divine
110 contemplo Dio, che regge l'universo,
principio d'ogni cosa, mezzo e fine.

Il regno mio è fatto a questo verso,
com'io t'ho detto: or di' se vuoi venire
o per le selve errando andar disperso. —

115 Io era pronto e giá volea dire:
– Io voglio, o dea, seguire il tuo consiglio
e dietro a' piedi tuoi sempre vo' ire. —

Ma, quando in aer su alzai il ciglio,
vidi Venus, la quale una donzella
120 mi mostrò lieta e Cupido suo figlio,

non vista mai al mio parer sí bella;
e cenno mi facían che su non gisse,
ché fermamente mi darebbon quella.

E parve che Cupido mi ferisse
125 di piombo e d'oro; e con quelle due polse
fece che allora non mi dipartisse.

Quella del piombo il buon amor mi tolse,
ch'avea d'Ilbina, e con quella dell'oro,
oh lasso me! che a boschi anco mi volse.

130 Per questo non seguii quel sacro coro;
per questo lascia' io la compagnia,
che mi menava all'alto concistoro.

Risposi a Palla: – O dea, la possa mia
non si confida e forse non può tanto
135 che vinca i mostri e saglia sí gran via. —

Cosí discesi di quel plaustro santo
e giú nell'aspre selve ritornai
intra le spine e punto d'ogni canto.

Ratto ch'io giunsi, Venere trovai,
140 che mi aspettava in una valle piana,
sí bella quanto si mostrasse mai.

Di mirto e rose e d'erba ambrosiana
portava su la testa tre corone
e faccia avea di dea e non umana.

145 Ella mi disse: – Or di': per qual cagione
volevi lasciar me e 'l mio figlio anco
o per Minerva o per muse elicone?

Se sí poco salendo fosti stanco,
se tu fossi ito per quelle erte vie,
150 saresti, andando insú, venuto manco.

Ma, se verrai nelle contrade mie,
le ninfe del mio regno al tuo desio
saran condescendenti e preste e pie.

E quella ninfa, ch'io e 'l figliuol mio
155 t'abbiam mostrata, ancor te la prometto;
e mezzo e guida a ciò ti sarò io.

– O Citarea – diss'io, – a te soggetto
sempre son stato ed anco al tuo Cupido,
sperando aver da voi alcun diletto;

160 onde per tue parole mi confido
la bella ninfa aver, che mi mostrasti,
e, ciò sperando, dietro a te mi guido

per questi lochi sí spinosi e guasti. —

CAPITOLO XIII

Come l'autore trova una ninfa chiamata Taura, la quale gli rende ragione di molti fenomeni.

Appena eravamo iti un miglio e mezzo,
ch'io vidi in una valle una donzella
sotto una quercia, che si stava al rezzo.

Io andai a lei e dissi: – O ninfa bella,
5 di qual reame se'? O dolce dama,
deh, fammi cortesia di tua favella,

e dimmi il nome tuo come si chiama.
Cosí soletta senza compagnia
aspetti tu alcun, che forse t'ama? —

10 Ella si volse e riverenzia pria
fece alla dea; e poi cosí rispose
alle parol della domanda mia.

– Del van Cupido saette amorose
giammai sentii; ed egli mi dispiace
15 e suoi costumi e sue caduche cose.

Dall'alto regno, che a Vulcan soggiace,
son io venuta all'ombra a mio diletto,
ché starsi al fresco alle sue ninfe piace.

Se vuoi saper come il mio nome è detto,
20 Taura son chiamata e qui dimoro
a questo orezzo e nullo amante aspetto.

E spesso l'altre ninfe del mio coro
vengono qui e vanno quinci a spasso
con vestimenti e con corone d'oro.

25 Ma tu chi se' e dove movi il passo? —
Ed io risposi: – L'amor m'ha condutto
per questo loco faticoso e lasso.

Chi sono e donde vengo a dirti il tutto
sarebbe lungo: io gusto ora l'amaro,
30 sperando di fatica dolce frutto.

Se la dea assente, io prego, fammi chiaro:
o ninfa bella, volentier domando,
perché io so poco e domandando imparo.

Però, mentr'io sto teco dimorando,
35 dimmi del regno, che Vulcan nutríca
sotto il suo freno e sotto il suo comando.

Il tuo dolce parlare anche mi dica
del loco ov'egli sta, s'egli ti done
che piú dell'altre ninfe a lui sie amica.

4 °Cupido giá del regno di Iunone
assai mi disse con suo parlar breve,
e della grandin disse la cagione

e delle nubi e pioggia e della neve
e delli tuoni, e disse del baleno,
45 ch'anco a' giganti è timoroso e greve.

Ma non mi disse ben espresso e appieno
come si fa la sube e la cometa
e la stella che corre e poi vien meno. —

Allor la ninfa con la vista lieta
50 rispose: – In pria conven che le parole,
le qua' disse Cupido, io ti ripeta.

Ciò, che non scalda il foco ovvero il sole,
conven che da sé venga in gran freddezza,
come natura e filosòfia vuole.

55 Però nell'aer sopra a tanta altezza,
dove non scalda il raggio che 'nsú riede,
e ove il foco non scalda a piú bassezza,

sta 'l regno freddo che Iunon possede:
li duo vapori, acquatico e terrestro,
60 lí si fan nube, sí come si vede.

E 'l vapor terreo e secco è da sé presto
ad accendersi ratto, purché senta
l'umido intorno, a sé opposto e molesto.

Sí come la calcina, che diventa
65 focosa all'acqua e fuor manda il calore,
che prima parea fredda e quasi spenta;

cosí levato 'nsú il doppio vapore,
l'acquatico si stringe e quindi piove,
perché quivi è compresso dal freddore.

70 Il terreo allor si aduna e si commove
dentro alla nube, e quel moto l'accende:
è la fiamma rinchiusa in stretto, dove

con grave tuon la densa nube fende,
e spesse volte la saetta scaccia
75 col balenar, che subito risplende;

il balenar vien subito alla faccia;
ché presto l'occhio può veder la luce,
se opaco o grande spazio non l'impaccia.

Ma 'l tuon, che seco il balenar produce,
80 l'orecchia dalla lunga nol può udire,
se l'aer seco a lui non lo conduce.

E ben che 'l foco sia atto a salire,
niente meno ingiú la nube spande,
che 'l freddo denso insú non lassa ire.

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