A farmi ritornare tra la gente comune o alla vita reale, come si poteva meglio dire e come accadeva ogni dannato giorno nell’ultimo mese, erano i raggi del sole, i quali cominciarono a pizzicarmi le palpebre e a non farmi più riposare. Aprii gli occhi, se così si poteva definire quel misero gesto di mettere a fuoco il paesaggio circostante e strisciare sino alla prima zona d’ombra, dove speravo di continuare per qualche altra oretta il sonnellino appena interrotto; anche perché l’orologio mi diceva che erano solamente le sei della magnana e arrivare a mezzodì sarebbe stata maledettamente lunga. L’unico posticino utile era sotto la chioma di alcuni alberi, lì di certo non avrei avuto problemi, almeno ci speravo. Presi per il collo la mia amica, e sino a che non mi fece chiudere nuovamente gli occhi, continuai a parlargli. Quel liquido era l’unico mio conforto, l’unica cosa che riusciva a non farmi ragionare e conseguentemente, sebbene lentamente mi stesse uccidendo, mi faceva rimanere in vita: per me era l’acqua dell’eterna giovinezza. Ogni volta che desideravo far cessare il battito del mio cuore, c’era lei che mi fermava, che mi ascoltava, che mi rincuorava, che mi toglieva le energie.
Non so che ore erano, quando la mia attenzione fu catturata da un vociare lontano che si faceva sempre più forte. Ero appoggiato con la schiena all’albero e sebbene inconsciamente avvertivo la possibilità che quelle persone ce l’avessero con me in qualche modo, non riuscivo, anzi, non avevo voglia di aprire gli occhi e interessarmi alla cosa. Rimasi a gongolarmi, accarezzato dalla leggera brezza cresciuta da qualche minuto che andava a graffiarmi la pelle, dall’afa che cominciava ad aleggiare nell’aria. Mi ero quasi riaddormentato quando un violento calcio mi colpì al volto. Non ebbi nemmeno il tempo d’aprire gli occhi che venni raggiunto nuovamente da un colpo all’addome. Trascorsero solo pochi secondi e un altro calcio mi raggiunse alla bocca dello stomaco lasciandomi senza fiato, procurandomi istantaneamente delle forti colate di vomito. Cercai di mettermi in sesto e di reagire, ma non ce la facevo, ero lì, carponi, a sputare a terra. Ebbi il tempo solo di alzare la testa e scorgere tre ragazzi correre via verso la strada e successivamente udire lo stridio delle gomme allontanarsi. Solo una cosa mi rimase colpita di quei giovani; uno indossava un giubbino dell’Harley Davidson arancione e nero. Sentivo il dolore delle percosse ricevute, ma non era tanto per il dolore fisico, che sarebbe scomparso da lì a pochi giorni, ma quello spirituale. Accettai quell’avvenimento come un segnale, un evento dal quale dovevo riflettere e ripartire. Non tanto perché ero stato scoperto, ma perché non avrei dovuto lasciare nulla al caso e se l’avessi fatto l’avrei pagata a malo modo. Ora potevo solamente gustare il sapore dolciastro del sangue in bocca. Non era la prima volta che mi capitava di provare quella sensazione, ma il modo in cui si era sviluppato tutto, era alquanto singolare ed eccitante. Per quanto patetico possa essere stato in quel momento, mi sentivo bene, più o meno. Mi misi gattoni e senza esagerare con la forza, racimolai l’impasto che avevo in bocca, sputandolo a terra. La mandibola mi fece vedere i sorci verdi, ma almeno non sentivo tutta quella poltiglia tra i denti. I fili d’erba affioravano dalle insenature delle dita, e l’umidità condensatasi durante la notte sul terreno, cominciava a bagnarmi il palmo delle mani, filtrando anche dal tessuto dei jeans, sulle ginocchia. Contrassi un po’ le gambe e con un leggero slancio mi misi a sedere. Tutto quello che potevo fare ora, era ridere. Me l’ero meritato, e con tutta sincerità, se mi fossi trovato nella situazione di quei ragazzi, credo che avrei adottato lo stesso comportamento, o forse anche peggio. E nonostante il bruciore, mi sentivo fortunato. Tutto quello mi faceva sentire vivo. Provavo dolore. La carne e le ossa trasmettevano impulsi al cervello e questo non lì assorbiva con indifferenza. Il dolore, il bruciore alla bocca e il sapore dolce del sangue misto a quello di vomito, mi faceva sentire parte di quel mondo che stava ai piedi di quella collina. Una cosa mi avevano fatto capire quei ragazzi, anche se me l’avrebbero pagata alla prima situazione utile, che dovevo rialzarmi per non finire più in basso di quanto non stessi ora, perché al baratro non c’era mai fine.
Mi alzai. I passi incalzavano precipitosi sotto le suole delle scarpe come i pensieri nella mia mente. Riflettevo e ipotizzavo una qualsiasi soluzione o direzione che potessi intraprendere. Sino a ora ero sempre stato una persona rispettosa della legge, sconfinando magari a volte di qualche centimetro; magari ero un po’ estroverso, nel senso che nel mio piccolo avevo cercato di far sempre quello che mi passava per la testa, senza ovviamente andare a calpestare i piedi a qualcuno, non tanto per timore, ma per un quieto e sereno vivere. Ora però sentivo che era diverso, avevo perso tutto, dal mio lavoro, alle mie amicizie, e a questo punto il quieto vivere poteva andarsene a quel paese.
Nella testa un’ipotesi si faceva sempre più ferma e concreta. Cosa avrei dovuto fare per racimolare un bel po’ di soldi senza fare molta fatica, utilizzando solamente la testa? Senza magari vincere alla lotteria nazionale o ai classici gratta e vinci? Un’unica risposta si accese nei miei pensieri: lo spacciatore di droga. Io che con il mio lavoro l’avevo sempre combattuto, ora trovavo in esso l’unico punto di forza per rialzarmi e riuscir a far voltar pagina alla mia vita. Gli spacciatori arrestati nella mia carriera di certo non lì riuscivo a contare sulle dita di una mano, e nemmeno in tutte quelle che possedevo, e forse grazie anche a questa esperienza, avrei potuto scavalcare la staccionata senza risentire del cambiamento di ruolo. Poche volte avevo fatto uso di droga, se qualche spinello nell’adolescenza si poteva definire tale, e questo era un bene, perché essere tossicodipendente non avrebbe fatto di certo bene agli affari, anzi, mi avrebbe fatto diminuire di molto il profitto. La cosa però non era molto semplice da imbastire. Il primo problema era riuscire a trovare la roba buona senza conoscere il prodotto. Il secondo, forse però di maggior importanza, era l’esser conosciuto dalla maggior parte degli spacciatori come uno sbirro, visto che l’ottanta per cento di loro li avevo arrestati. L’unico punto a mio favore erano le pessime condizioni in cui mi trovavo ora, e quella gentaglia forse non mi avrebbe riconosciuto subito, e se l’avessero fatto magari percependo le voci che giravano per i bassi fondi, non avrebbero dato peso alla mia presenza, e poi provare non mi sarebbe costato nulla, al massimo avrei ricevuto una coltellata alla schiena.
Ora questa prospettiva mi stava dando un grosso stimolo. Non so sino a dove sarei arrivato, ma utilizzare la mia esperienza e la mia intelligenza per sfuggire alla polizia e racimolare quanti più soldi possibili, era una cosa che mi galvanizzava e l’essere totalmente libero e indipendente era di certo un vantaggio da non trascurare. Non una famiglia da mantenere, non dei genitori ai quali dover render conto e l’unica persona con la quale dovevo fare i conti alla fine di ogni giornata ero solamente me stesso.
Con l’avanzare del tempo e dello spazio, mi ritrovai tra i vicoli del centro. Molti ricordi si celavano in quelle vie, belli e brutti, ma questo non faceva differenza perché erano parte della mia vita e della mia persona, ma ora non avevano alcun valore, se non quello di stuzzicare la memoria in vecchi ricordi oramai troppo lontani per sentirne il sapore. Cercavo lo sguardo delle persone che incrociavo, frugavo nei loro occhi qualche segno, o qualche familiarità, ma di sicuro non sapevo nemmeno io di cosa avevo bisogno o cosa speravo di trovare, ma continuai in quella vana osservazione, sino a che decisi di fermarmi. Avevo le gambe appesantite, e oltre ad avere la gola secca, anche lo stomaco cominciò a brontolare e a contorcersi dal digiuno, ma certo, di spiccioli per mangiare in tasta non me n’era rimasto nemmeno uno. Prima di mettermi comodo, accettai un volantino pubblicitario distribuito da uno dei tanti ragazzi universitari, che posizionati sulle arterie principali, sfruttavano quell’attività per mantenersi gli studi. Cominciai a creare un origami. Piega dopo piega, davo forma a quel semplice depliant, come insegnatomi dal mio professore di tecnica al tempo della scuola media. Non era difficile da comporre, bastava piegare i vari angoli e faccettature sino a comporre una barchetta, e sciolta questa, la scatolina era ben che fatta. Posai a terra il piccolo capolavoro e abbassando la testa, assumendo un’espressione sconsolata, rimasi in attesa degli spiccioli di qualche buonanima di passaggio. Di tanto in tanto alzavo lo sguardo cercando un po’ di compassione, considerato che le monetine non fioccavano come rondini a primavera. Ogni volta che accadeva guardavo il mondo intorno a me. Dagli studenti che animavano con il loro passaggio e le loro chiacchiere il marciapiede coperto dai portici simmetrici di colore grigio, alle persone ferme alla fermata dell’autobus pronte a salire per dar cambio a quelle che scendevano. Senza tralasciare le scritte dei vari negozi di moda, dei piccoli bar, e di tutti gli altri esercizi commerciali che contornavano la via. Di tanto in tanto la mia attenzione veniva catturata da un negozio posto dall’altra parte della strada, anche perché era stato aperto da qualche mese, ma la sua affluenza non era diminuita con il passare dei giorni, stavo parlando del negozio della mela più conosciuta al mondo. Mi trovavo in via Rizzoli, a pochi passi da piazza Maggiore. Se guardavo a destra potevo vedere innalzarsi le torri degli asinelli. Il solo vedere i piccoli mattoni arancioni di cui erano composte, mi portava alla mente il giorno in cui in compagnia di una nuova amica, Stephanie, che avevo conosciuto in una delle mie tante serate in discoteca solo qualche giorno prima a quell’evento, con l’abilità che solo una donna possiede, era riuscita a raggirarmi, convincendomi a salire sin su la torre più alta, per ammirare lo spettacolo che Bologna stava riservando solo per noi. Quella ragazza era una forza della natura, brasiliana e dal sorriso coinvolgente. Capelli ricci biondi contornavano il suo viso dolce e morbido. Ora che ci pensavo non comprendevo perché decisi di non frequentarla più dopo sole due settimane che uscivamo, anche se il lavoro aveva influito e non poco, considerato che mi portava via il novanta per cento della giornata. A quanto ricordavo però e per quel poco tempo che l’avevo vissuta, l’avevo trovata una persona gioiosa e positiva, con la quale condividere del tempo assieme era sempre un piacere. Anche perché detto tra di noi, ero giunto al punto di affermare che le ragazze brasiliane erano dotate di una carica sessuale fuori dal comune, appurando che se le loro voglie non venivano soddisfatte puntualmente, ti lasciavano per il primo che passava. Magari il primo no, ma il secondo indubbiamente sì. A convincermi a salire per tutti quegli scalini, fu solo un motivo, il più banale per un uomo, le era bastata una sola e semplice frase, detta con accento portoghese ovviamente: “Se non sali con me questa sera niente samba.” Non serviva spiegare cosa intendesse lei per samba, visto che io non sapevo di certo ballarla. Fatto sta che ero salito sin lassù, trovando lo spettacolo che s’intravvedeva, impagabile. La ringraziai per avermi fatto fare tutta quella fatica, non a parole ma alla mia maniera la sera stessa, con la samba ovviamente. Quella che vedevo da lassù, ed era sotto ai miei piedi, era la mia città e da lì mi sentivo parte di essa come non mai.
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